Boris da mercoledì su Disney +, la rivoluzione in tv con ironia e cinismo

Arriva l’attesa quarta stagione della serie più popolare (e virale) del nostro Paese, che ha cambiato il linguaggio delle fiction

Sabato 22 Ottobre 2022 di Ilaria Ravarino
Boris da mercoledì su Disney +, la rivoluzione in tv con ironia e cinismo

IL FENOMENO
«Una serie molto italiana». È il tormentone dello Stanis La Rochelle di Pietro Sermonti, uno dei protagonisti di Boris, la serie tv inventata nel 2007 da Mattia Torre, Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, che nel parodiare il (mal)costume della tv italiana metteva il dito nella piaga di un problema che cominciava, nei primi del Duemila, a farsi notare: il provincialismo della fiction nazionale. Mentre dagli Stati Uniti tra il 2001 e il 2004 fenomeni come Lost, Six Feet Under e 24 rompevano gli schemi della narrazione tradizionale, nella forma e nel contenuto, la fiction italiana dell'era pre-Netflix proseguiva a ripetere - con risultati alterni - i modelli classici del poliziesco (Distretto di polizia), del dramma in costume (Elisa di Rivombrosa), del family (Un medico in famiglia) del giallo (Don Matteo). L'arrivo di Boris, in quegli anni di iperproduzione di fiction, non fu casuale: «Gli autori di Boris riuscirono a intercettare un fenomeno di cui, tra chi faceva cinema a Roma, si rideva già molto - racconta il critico televisivo Marco Giusti - L'attore cane, il produttore cialtrone, il regista vessato, erano figure tipiche del boom della fiction e della Roma delle produzioni.

Loro lo capirono, e ci fecero una serie. All'inizio li sottovalutammo, fu un errore. Era il momento giusto per la parodia».

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GLI ATTORI
E il momento giusto è anche quello scelto dagli stessi autori (tranne Mattia Torre, scomparso nel 2019) per tornare, a 12 anni dalla terza stagione e a 11 dal film, con otto nuovi episodi di Boris, in arrivo da mercoledì su Disney + (i primi due saranno presentati domani in anteprima alla Festa del cinema di Roma). Il cast è lo stesso: il regista vessato Renè Ferretti (Francesco Pannofino), l'egocentrico Stanis, la sopravvalutata Corinna (Carolina Crescentini: «Cagna maledetta!», il tormentone da meme), lo strafottente fonico Biascica, il serafico direttore della fotografia Duccio e in generale tutta la troupe dell'immaginaria fiction medical di infima qualità Gli occhi del cuore. La serie che Ferretti è chiamato a girare, nella nuova stagione di Boris, è il peplum Vita di Gesù: l'idea è di Stanis, il copione è firmato dai soliti tre sceneggiatori («F5 basito», altro tormentone), solo che a commissionare il lavoro non è più la tv generalista, ma una fantomatica piattaforma globale. Che imporrà, nella feroce dittatura dell'algoritmo, cieche regole di inclusione e un politicamente corretto destinato a frustrare ancora una volta qualsiasi ricerca di qualità. «La forza di Boris è sempre stata nella scrittura, una comicità erede della grande commedia italiana ma venata di un gusto british per la battuta, capace di mettere allo specchio oggi come ieri l'industria televisiva italiana» ricorda Fabrizio Salini, ad della Rai fino all'anno scorso, che nel 2007 aprì la porta della rete, da direttore dei canali Fox, al produttore Lorenzo Mieli: «Arrivò in ufficio con due paginette di copione, sulle quali c'era già tutto (al tempo la serie si chiamava Sampras, per questioni di diritti mutò in Boris, ndr). Alla fine della lettura eravamo in lacrime dalle risate. Non cambiammo una virgola». Convinti i produttori americani di Fox a investire nel progetto («Boris era fuori budget, non era previsto, e gli attori non erano conosciuti»), la serie iniziò la sua corsa su Sky: «La mettemmo in seconda serata per proteggerla, c'era il rischio che fosse di nicchia. Andò male? Non era facile, allora, calcolare i numeri degli ascolti».
Il vero successo, in effetti, arrivò solo dopo: quando «con il passaparola sul web, e forse anche la pirateria, cominciò a parlarne anche chi non aveva un abbonamento a Sky». Un fenomeno spinto dal web - i tormentoni si sono convertiti in meme, le battute in gif, le puntate caricate su YouTube sono diventate virali sui social - che ricalcava il destino toccato, negli anni Settanta, al film Febbre da cavallo di Steno - diventato un cult grazie alla programmazione sulle allora arrembanti tv private. «Il trionfo è riuscire a far ridere anche quelli che prendi in giro: fu così con la Rai per il primo Boris, sarà così anche per le piattaforme».
LA REGOLA
Anche perché, nel corto circuito tra parodia e realtà, parte della popolarità di Boris si deve a Netflix, che lo riprogrammò durante la pandemia. «Nel lockdown in parecchi hanno guardato la serie - ha detto Corrado Guzzanti, il folle Mariano in Boris - anche chi non la conosceva. E tutti si aspettavano che arrivasse una quarta serie». Non su Netflix però ma su Disney +, erede del listino di Fox e affamata - come tutte le piattaforme - di contenuti propri: è la regola della nuova tv. Non solo quella italiana.
 

Ultimo aggiornamento: 08:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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