Valentina, infermiera di Civitavecchia:«Io al fronte tra dolore, gioia e paura»

Martedì 7 Aprile 2020 di Vincenzo Sori
Valentina, infermiera di Civitavecchia:«Io al fronte tra dolore, gioia e paura»
Tre paia di guanti, calzari, tuta protettiva Tyvek, cuffia salvacapelli, mascherina Ffp3, visiera paraocchi e schermo facciale. Gli operatori sanitari al tempo del Coronavirus sembrano astronauti, solo che qui non ci sono pianeti da esplorare, ma vite umane da salvare. Ne sa qualcosa Valentina Ciambella, infermiera civitavecchiese in forza al reparto di Terapia intensiva Covid-19 del San Giovanni di Dio di Firenze. Per lei un percorso che l'ha portata a lavorare in diverse strutture, anche a Civitavecchia, prima della chiamata nel 2014 dalla Toscana. «All'inizio il trasferimento lontano da casa è stato molto duro, poi ho conosciuto degli ottimi professionisti e una realtà stimolante». Prima Chirurgia programmata, poi Chirurgia d'urgenza e, da giugno 2018, lo spostamento alle cure intensive («Ci avevo fatto la tesi di laurea») in una delle cinque strutture toscane dedicate all'emergenza Coronavirus.
Quanti ricoveri avete avuto nel vostro ospedale?
«Abbiamo una terapia intensiva Covid-19 con 12 posti letto e un reparto Covid-19 con 8. Già dai primi di marzo il reparto era pieno, con un tasso di ricoveri di circa 3 pazienti al giorno. Adesso la situazione sembra leggermente migliorata ma il livello di allarme è ancora altissimo».
Qual è stata la risposta del San Giovanni all'emergenza?
«Dalla terza decade di febbraio dalle strutture del Nord sono arrivate le prime procedure operative, progressivamente recepite dall'azienda. Dopo una fase iniziale molto difficile, oggi siamo in grado di applicare protocolli efficaci, dettagliati e sicuri».
Qual è l'iter classico di un ricovero per nuovo Coronavirus?
«Il paziente Covid acuto ha gravissime difficoltà respiratorie e va subito intubato. Alcuni pazienti in base al quadro polmonare vengono pronati, con la testa lievemente in discesa, per 8-12 ore. Questo può favorire dei miglioramenti importanti in breve tempo. I pazienti sono monitorati costantemente. Se le risposte sono buone, si scala la sedazione, il paziente viene stubato e si iniziano i cicli di Nimv (ventilazione meccanica non invasiva, ndc) con i caschi. Da lì, se migliorano ancora, passano al reparto Covid-19 normale. Se invece non migliorano, dopo 7-8 giorni di intubazione si rende necessaria la tracheostomia. Se non funziona nemmeno questo, purtroppo c'è la morte».
Come gestite i decessi?
«La procedura prevede che il corpo venga cosparso di alcol, avvolto in un lenzuolo, posizionato in un transbag enorme e successivamente in un altro grande sacco di nylon chiuso ermeticamente. Sopra viene attaccato un cartellino su cui è riportato il nome. Ecco, tutto questo è terribile, e a volte mi fa sentire tutto il peso di un lavoro bello ma spietato».
osa si prova invece quando i pazienti guariscono?
«Quando riescono a togliere quel maledetto tubo e tornano vigili è bellissimo. Sono le gioie che compensano i dolori alla testa causati dai dispositivi che stingono troppo, il fastidio per il gran caldo, la sete che ci toglie il respiro e la paura costante di essere contagiati».
 
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