Gianluca Amadori
SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE di
Gianluca Amadori

Giustizia, il falso problema dei passaggi di funzione da pm a giudice

Martedì 17 Maggio 2022

I magistrati in servizio in Italia sono 8620. Negli ultimi 16 anni, ovvero dalla riforma Castelli-Mastella del 2006, in media sono passati dalla funzione di giudice a quella di pm meno di venti magistrati all'anno (per un totale di 312 in 16 anni, di cui 61  verso la procura generale presso la Cassazione, uficio nel quale non si fanno indagini); dalla funzione di pm a quella di giudice in media 28,5 magistrati (per un totale di 456, di cui  25 verso la Corte di cassazione).  In sostanza, il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto solo lo 2 magistrati su mille, quello inverso solo 3 su mille.
Ma non basta: dal 2006 - anno dell’entrata in vigore dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 (che ha ridotto a quattro il numero massimo di passaggi di funzione)  al 2021, il numero  dei  passaggi effettuati dal medesimo magistrato è stato di regola uno solo, salvo trentanove casi in cui i passaggi sono stati due. Solo un magistrato ne ha effettuati quattro (peraltro in funzioni di legittimità civili). 

L'analisi dei dati forniti dal Consiglio superiore della magistratura fa capire con estrema chiarezza la strumentalità del dibattito in corso da mesi sulla necessità di impedire ai pm di diventare giudici e viceversa. Passaggio che, oltre a riguardare un numero modestissimo di magistrati, può avvenire già ora soltanto previo trasferimento in un diverso distretto (ovvero nella gran parte dei casi in una diversa regione). Eppure su questo tema è stato promosso un referendum e le forze  politiche si sono scontrate ferocemente per giungere al testo finale dell’art. 12 del D.D.L. S. 2595 – disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario - in discussione in Senato, che riduce sostanzialmente ad una sola la possibilità di cambio di funzione, da esercitare obbligatoriamente entro i primi 10 anni di servizio. Il tutto alimentando nell'opinione pubblica la convinzione che il tema del cambio di funzioni sia una questione di importanza nazionale, per eviatere indicibili ingiustizie e persecuzioni dei cittadini. Ingiustizie ed errori ci sono, ma sicuramente hanno poco o nulla a che vedere con il passaggio di funzioni di un magistrato. E quando accade il problema non è certamente il passaggio di funzioni, ma semmai il singolo magistrato. E dunque un problema resta anche se non si sposta di ufficio.

Questo accanimento della politica contro le "porte girevoli" ha un solo evidente obiettivo: far passare pian piano la riforma - di impatto ben più pesante - della separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante,  per la quale serve però una modifica della Costituzione. Ma, invece di avviare un dibattito serio (di esito incerto) la politica ha scelto la scorciatoia della legge ordinaria (alimentando una campagna mediatica strumentale) con tutti i problemi connessi, ovvero senza prevedere in ambito costituzionale i necessari equilibri e contrappesi che una separazione delle carriere dei magistrati richiederebbe, in quanto i pm rischiano di diventare meno liberi e autonomi dei giudici è maggiormente soggetti al potere politico. Insomma, più controllabili.

Per la Costituzione, come proclama l’articolo 104, “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni potere”, ordine a cui appartengono indifferenziatamente i giudici e i pubblici ministeri e ciò costituisce la legittimazione costituzionale al passaggio dei magistrati da una funzione all’altra, nel rispetto dei limiti di incompatibilità e terzietà. 

In magistratura, per il principio di cui all’art. 104 della Costituzione, non si nasce pubblici ministeri o giudici ma lo si diventa al momento dell’assegnazione della sede di prima destinazione, scelta che dipende quasi sempre da motivi familiari e dalla posizione in graduatoria quando si supera il concorso. Tale scelta, come emerge dai dati statistici, segna poi il futuro della stragrande maggioranza dei magistrati, che non cambiano mai funzione.

La riforma ora in discussione, insomma, fa tanto rumore per nulla, probabilmente per nascondere i veri problemi della giustizia, sui quali non risolve nulla. O poco. La giustizia non sarà più veloce, ma in compenso i magistrati si trasformeranno pian piano in meri impiegati (ben pagati) che, per evitare ispezioni, sanzioni e carriera compromessa, sceglieranno le soluzioni meno rischiose e che, per soddisfare i target di produttività, si dedicheranno ai casi più banali (e veloci da definire) evitando quelli più complessi, difficili e magari scomodi. Produrre sentenze (o chiudere inchieste) non può essere ridotto solo a questione di tempi e velocità come sfornare panini. La riforma non affronta poi la questione più spinosa: il carrierismo sfrenato all'interno della magistratura. Soltanto ripristinando l'anzianità come requisito preferenziale per gli incarichi direttivi si può eliminare l'ansia di carriera che ha trasformato le "correnti" da luogo di dibattito sulla giustizia a "distributore" di incarichi ad amici e compagni di "cordata". Così le "correnti" non hanno senso, e devono tornare ad essere momento di confronto interno alla categoria. La riforma non risolve, infine, l'altro grande problema: i magistrati dovrebbero essere tutti uguali e rispondere solo alla legge. Oggi invece chi ricopre incarichi direttivi ha un potere enorme, soprattutto in procure fortemente gerarchizzate, e può condizionare l'autonomia e indipendenza dei colleghi. Un rischio vero per la libertà e credibilità di una magistratura che, assieme a tanti difetti e storture (emerse dallo scandalo Palamara) negli anni ha saputo anche essere un vero baluardo (spesso l'unico) a difesa dei cittadini contro ingiustizie e strapotere dei più forti.

Ultimo aggiornamento: 06:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA