Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia 78, giorno 9. Troppi fantasmi:
l'America latina si perde nel mistero

Venerdì 10 Settembre 2021

Quinto e ultimo film italiano in Concorso, la terza opera dei fratelli d’Innocenzo sembra segnare, se non un vero e proprio passo indietro, almeno una pausa nel processo identificativo di una autorialità che resta coerente, ma che rispetto ai lavori precedenti si colloca su un piano di solipsistica elaborazione di un personaggio squilibrato, che forse ha compiuto azioni criminali e che vive costantemente la sua quotidianità allucinatoria. Massimo è (forse) un dentista. Ha una bella villa con piscina, una moglie, due figlie, un amico. Il suo mondo è tutto qui e probabilmente è solo una proiezione. In più c’è un altro personaggio: una bambina, apparentemente rapita, che è legata e imbavagliata nella cantina di casa. “America latina” (dove la zona di Latina, che è quella del film, spunta attraverso una notizia di cronaca, escamotage già sfruttato nel precedente “Favolacce”; America è un ulteriore aggiunta misteriosa) procede per indizi, suggerimenti, scarti, un puzzle in cui bisogna capire ciò che è reale (molto poco) e ciò che è frutto della mente distorta di Massimo (quasi tutto); ha come detto una sua coerenza, non solo stilistica, con i film precedenti, ma qui manca il contesto, la coralità, quella “malattia” sociale che amplificava malesseri e turbamenti dei singoli. Qui c’è un uomo solo (Elio Germano), le altre persone sono sfuggenti e tutti sono ripresi quasi sempre in primi piani, a parte l’inquadratura esterna della casa. È un film molto chiuso, senza respiro narrativo, psicologicamente limitato, sicuramente antiborghese, ma incapace di affermarlo con forza, semmai quasi orgoglioso delle proprie ambiguità: certo alla fine il quadro ogni spettatore se lo ricostruisce, ma resta la sensazione di un esercizio (di stile) sprecato e certo non nuovo al cinema. E forse la tanta generosità nel lavoro dei fratelli, impegnati contemporaneamente su più fronti, sembra non giovare. Voto: 5.

Va meglio con l’altro film in Concorso. “Leave no traces” del polacco Jan Matuszyński ci conduce nella Varsavia sovietica del 1983, quando due giovani studenti vengono brutalmente arrestati, mentre innocuamente si divertono in piazza e ferocemente malmenati in questura. Uno muore in poche ore, l’altro rischia la galera, al pari dei due sfortunati infermieri accorsi con l’ambulanza. Ispirato a un evento reale, descrive il mondo di sotterraneo terrore in cui si viveva all’epoca nell’Est europeo, come già tra l’altro abbondantemente raccontato da molti film, alcuni ben più coraggiosi già all’epoca dei fatti. Fotografato con uno stile anni ’80, è un racconto dettagliato di tutti i controlli, minacce, depistaggi, dalla più importante carica politica (il generale Jaruzelski, qui impressionante nella somiglianza), fino tristemente ai familiari, con una sceneggiatura potente e implacabile, che lascia lo sconcerto anche alla fine con la consueta scritta finale che spiega condanne, assoluzioni e destino dei personaggi. Sorprende, diciamo così, comunque come alla Mostra ben tre film (uno russo, uno ungherese e appunto uno polacco) preferiscano parlare del passato e tacere sul presente di Paesi che ancora oggi impediscono una democrazia compiuta. Voto: 7.

Infine Fuori concorso è passato il francese “Les choses humaines” a firma Yvan Attal, attore regista di origine israeliana. Racconta la denuncia di stupro della giovane Mila da parte del coetaneo Alexandre, la cui madre separata oggi è la compagna del padre della ragazza. Diviso sostanzialmente in tre parti (Lui, Lei, il processo) porta in scena l’ambiguità della verità, in un ambiente sociale borghese e istruito, sfruttando ogni luogo comune, dalla composizione delle famiglie alle testimonianze del caso, per mostrare come il confine della certezza spesso sia fortemente nebuloso. Soprattutto la parte dibattuta in aula è interessante, ma forse il film avrebbe potuto mantenere comunque l’incertezza di un verdetto, che invece viene esplicato, anche se era evidente fosse quello con tutta probabilità: meglio era mettere la parola “fine” di fronte a quella porta che si chiude, dove dentro solo i due ragazzi sanno cosa sia veramente accaduto. Voto: 6,5.

 

 

Ultimo aggiornamento: 07:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA