Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia 78, giorno 6. Massacro del Circeo:
bocciata la scuola cattolica

Martedì 7 Settembre 2021

Due piccoli film in Concorso si ritagliano comunque uno spazio di attenzione: la giornata non ha regalato quel recupero immediato dopo un paio di titoli abbastanza sconfortanti, ma un po’ meglio è andata.

La caja” del venezuelano Lorenzo Vigas ci porta in un territorio pieno di insidie, tra persone scomparse, uccise e velocemente sepolte in fosse comuni e una schiavitù lavorativa che soggioga soprattutto le donne. Hatzin è un adolescente partito da Città del Messico, dove vive con la nonna, per andare a recuperare, nello Stato del Chihuahua i resti del padre, trovati in una fosse comune. Recuperata la cassa e pronto a ripartire, si trova davanti un uomo, nel quale crede di riconoscere il padre. Vigas, che 6 anni fa vinse uno dei più inadeguati Leoni d’oro di sempre con “Ti guardo”, tra l’altro sua opera prima, torna a Venezia con un’altra opera minimalista, raccontando disagi, soprusi e omicidi in una terra desolata, spesso inospitale, drammaticamente conflittuale. Lo stile è ancora scarno, ruvido, la messa in scena essenziale e disadorna, le azioni dei personaggi contraddittorie, specie in Hatzin (il giovane Hatzin Navarrete), che compie un percorso di crescita in modo accidentato e brutale, la cui quasi silenziosa presenza dà più senso a un film piuttosto esile. Voto: 6.

Un po’ più robusto è senza dubbio “L’événement”, anch’esso in Concorso, che ci porta in Francia a inizio anni ‘60, quando abortire era un reato che portava alla prigione. La studentessa Anne scopre di essere incinta, decidendo di non voler tenere il figlio che dovrebbe arrivare. Inizia così un calvario tra dottori che respingono la richiesta, tentativi personali di disfarsi del feto e il ricorso a un’esperta in modo clandestino. La parigina Audrey Diwan segue il dramma, narrato tra paure, vergogne e incomprensioni, disegnando una figura spaesata in un percorso in cui tutti la lasciano sola. Girato a ridosso della protagonista (l’eccellente Anamaria Vartolomei, con buone possibilità di Coppa Volpi), in un formato che ne imprigiona ancora di più il corpo già sofferente, porta il dolore sullo schermo in modo straziante, con un paio di scene insostenibili. Ma è piuttosto canonico. Voto: 6,5.

Purtroppo fuori concorso è passato l’ultimo film di Stefano Mordini, “La scuola cattolica”, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati (anche lui frequentatore all’epoca dell’Istituto religioso), teatro di crescita di ragazzi della Roma bene, alcuni dei quali nel 1975 si resero protagonisti di uno dei fatti più scioccanti di cronaca, noto come il delitto del Circeo, in cui tre giovani, poi condannati all’ergastolo (uno in contumacia), stuprarono a ripetizione due ragazze, provocando la morte di una di loro. Mordini vorrebbe disegnare un quadro sociale borghese e ricco dentro il quale si sono coltivati i peggiori istinti, spesso contaminati da un’educazione autoritaria o ipocrita dei genitori, ma si limita in modo puramente descrittivo a elencare le fasi della vigilia. Se tutto quello che non serve è fin troppo esibito, per giunta appesantito da una voice over che spiega ulteriormente i fatti, il lato oscuro si disperde in passaggi stridenti (il cameo di Gifuni), in dettagli mal congegnati (l’omosessualità latente, la generosità di alcune mamme), in uno stile di vita che sembra solo quello di ragazzi nell’euforia della crescita. Inondato inutilmente da canzoni, il film mostra uno stile impersonale, una scrittura tentennante e una regia piatta, che avrebbe fatto meglio a non esibire in un lungo e brutto finale lo stupro e l’omicidio, suggerendone meglio le cause. Ma c’è di peggio: Mordini dimentica completamente di inquadrare l’azione dei tre giovani dal punto di vista ideologico e politico, trasformando i colpevoli, che non nascondevano le loro simpatie per la destra estrema, in una sorta di sciagurati ragazzacci che in un giorno di svago persero la testa. Non bastano certo un brevissimo, quasi goliardico richiamo a Hitler e men che meno il canto corale in macchina delle “braccia tese” battistiane, all’epoca considerato il cantante più amato dai fascisti, per dipingere il cuore nero di quei giovani assassini. Aver dimenticato totalmente questa matrice è imperdonabile. Voto: 3.

Ultimo aggiornamento: 08:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA