Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia 77, giorno 3
PADRENOSTRO, preghiera non esaudita

Sabato 5 Settembre 2020


Primo film italiano e prime perplessità per un film che parte anche da un’idea interessante, ma finisce per sciuparla. “PADRENOSTRO” (chissà perché tutto maiuscolo e unito, pur nella mitologia evidente del ruolo) s’infila negli anni tormentati dal dramma del terrorismo, qui di stampo brigatista, cercando una chiave interpretativa alternativa, seguendo la reazione del bambino Valerio, il cui padre (Favino) viene ferito in un attentato, nel quale muore il terrorista. Siamo a metà degli anni ’70 e Valerio, che assiste alla tragica scena senza farsi notare dalla mamma, rielabora questo drammatico evento facendo la conoscenza di Christian, un ragazzo più grande di lui, che sembrerebbe inizialmente una figura fantasmatica, ma che poi viene “riconosciuta” anche dal resto della famiglia.
A Claudio Noce, il cui padre era vice-questore all’epoca, non interessa un’ulteriore lettura storica e politica di quegli anni (il terrorismo, cuore centrale dell’idea portante, resta spesso laterale alla narrazione), ma semmai la volontà, anche protettiva, di tacerlo, nasconderlo, in famiglia come in società: lo sguardo di Valerio diventa quindi la rielaborazione di una generazione nel fare i conti definitivamente con quel periodo, per trovare il modo per superarlo, come la scena finale nella metropolitana induce a suggerire. L’intento è stimolante, ma a Noce non riesce purtroppo un’adeguata simbiosi nello sconfinamento continuo tra la realtà e la sua proiezione che Valerio crea; e questo diventa già un problema. In più, volendo aggregare cinema d’autore e cinema di genere, costringe il film a subire tutto un armamentario estetico (ralenti, inquadrature sghembe, sfocati, movimenti di macchina irrilevanti ed esibizionisti), che non sembrano spesso giustificati (un male ricorrente di molti registi che vogliono farsi “notare”), scatenando spesso emozioni a comando, come l’uso delle canzoni dell’epoca a palla (De Gregori durante la sparatoria, la PFM nella cruciale agnizione di Christian) o, peggio ancora, come l’ormai abusato stop immagine-sguardo in macchina finale (con tanto di spiegone su chi sono i personaggi da adulti). Peccati non trascurabili per un film che non ha comunque mai la forza di assecondare le intenzioni e i diversi temi aperti, risolti sempre grossolanamente. Voto: 5.
Appare per ora come il miglior film in Concorso “The disciple” dell’indiano Chaitanya Tamhan, che racconta la storia di un discepolo che disperatamente tenta di diventare un interprete di musica tradizionale, non accettando serenamente di non avere quel talento che si augurava. La storia di Sharad racconta dunque un fallimento, accettato infine nel modo più plateale, mentre il regista si interroga anche sul passato (e la memoria) dell’India di un tempo e quella di oggi, proprio usando la musica, dal talent-show alla X-factor al musicista di strada che chiude il film in metropolitana. Certo meno gorgheggi, a noi incomprensibili ovviamente e un po’ meno sospensioni del tempo nelle scorribande notturne in moto non avrebbero guastato, ma come curioso musical funziona. Voto: 6,5.
Deliziosa, infine, la commedia brillante, Fuori concorso, “The duke”, sul furto alla National Gallery del ritratto di Goya al Duca di Wellington, avvenuto nel 1961 ad opera di Kempton Bunton, taxista paladino di cause per le persone meno abbienti e pensionati. Diretto da Roger Michell, magistralmente interpretato da Helen Mirren, qui solo “regina” di povera casa, e soprattutto dal gigantesco Jim Broadbent è uno spasso intelligente, che riesce a chiudersi con un verdetto sensato al processo e una mezza lacrima. Voto: 7.

 
  Ultimo aggiornamento: 14:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA