Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia 75. Nel grembo materno del Carso
Gergolet e la sua virtual reality nelle grotte

Giovedì 23 Agosto 2018

Che la VR, sigla con la quale si identifica la Virtual Reality, fosse un possibile oggetto delle meraviglie lo si era capito già l’anno scorso, nell’esordio alla Mostra del Cinema, nel suo contesto distaccato al Lazzaretto Vecchio. E difatti fu un successo notevole per interesse, curiosità, qualità delle opere. Così è evidente che un anno dopo la Biennale abbia deciso di amplificarne l’eco (40 film, di cui 30 in concorso: grande è l’attesa), rompendo anche ogni indugio nell’allargare la sua stessa funzione di produttrice, come avviene ormai da anni con Biennale College per i film, diciamo per capirci, “tradizionali”. Ed ecco quindi spuntare nel programma definitivo anche opere in VR, passate attraverso il canone di selezione “interno”, tra le quali spicca il lavoro del nordestino Ivan Gergolet (41enne goriziano di nascita, triestino da tempo per adozione), che al Lazzaretto porterà “In the cave”, viaggio quasi “fantasmatico” dentro le grotte del Carso, percorso misterioso e affascinante come ogni racconto verso il centro della Terra. Ma come si arriva a filmare il cuore del Carso, nel mondo roccioso e imprevedibile del sottosuolo?
Spiega il regista: «Si arriva a fatica, come ogni volta si inizia un’avventura cinematografica. Ed è stata proprio la VR a dare una scossa a un progetto che inizialmente doveva essere un “corto” tradizionale e che come spesso accade si era bloccato su un binario morto. È stata quindi la possibilità di partecipare alla Biennale College a smuovere la situazione stagnante: il progetto è piaciuto e da lì siamo partiti definitivamente. Il risultato mi soddisfa, anche se il breve tempo di realizzazione, circa 6-7 mesi, ha imposto ritmi ossessivi; ma d’altronde vale anche per gli investimenti, che al contrario di quanto accade solitamente, qui arrivano subito. E non si perdono anni per fare anche un piccolo film».
E allora vediamo che succede dentro queste grotte: «Si racconta l’esperienza, che è anche infantile, di scoperta. Non un percorso turistico, ma di esplorazione, dove prevalgono le sensazioni forti, ancestrali. Diciamo che il film vuole ricreare l’esperienza prenatale nel grembo materno, un viaggio metaforico sulla nascita e in questo caso sulla rinascita».
Girare nel sottosuolo di per sé non è mai facile, figurarsi ricreare una situazione in VR: «Abbiamo usato due tecniche diverse: una ripresa cinematografica a 360° per le scene più semplici, mentre per gli aspetti più spettacolari, quelli radicalmente espressivi, ci siamo avvalsi della fotogrammetria, una tecnica nuova, nata per le esigenze degli speleologi, girando all’interno di varie grotte del Carso, per poi riassumerle tutte in una grotta simbolica. Uno dei problemi più evidenti è stato ovviamente dosare l’illuminazione, ma credo siamo riusciti a ridare un senso reale all’ambiente, lontano ad esempio dalla computer graphic. Lo spettatore seguirà tutto questo come se avesse insomma un casco sulla testa e si avventurasse attraverso i cunicoli del sottosuolo”.
Una scoperta anche per lo stesso Gergolet: «Sì, non avevo esperienza in materia. La VR mi era pressoché sconosciuta. Credo sia un mezzo di espressione potente, anche se basato ancora su una tecnologia fragile. Non cambierà il cinema credo, ma diverrà sicuramente una nuova forma di arte visiva, trovando una sua strada autonoma”.
Per Gergolet è un ritorno a Venezia, dopo essere passato con il suo primo film “Dancing with Maria”, selezionato dalla Settimana della Critica nel 2014. Quindi la Mostra è nel suo cuore: «È stato il luogo che mi ha dato la possibilità di farmi conoscere, fuori dalla cerchia degli amici. Non credo che mi abbia favorito il fatto di vivere a Nordest, ma sono grato alla Mostra che ha trovato per la seconda volta uno spazio per me, per dare un senso al mio lavoro. Venezia resta un gigante dei festival ed essere qui è una soddisfazione impagabile».

 
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