Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Petzold, un'Ondina travolgente: gran film
PADRENOSTRO, preghiera non esaudita

Giovedì 24 Settembre 2020

Basterebbe la scena di incontro casuale tra Undine e Christoph, con quell’acquario che esplode in un caffè di Berlino, in una catastrofe accidentale nata da una distrazione, per fare di “Undine” un grande film. E di Christian Petzold un notevole regista: ma questo lo sapevamo già. In quella distruzione spettacolare si tesse l’attrazione fatale di due sconosciuti, che si ritrovano praticamente abbracciati, e si identifica l’elemento fondamentale del film: l’acqua. D’altronde Christoph è un palombaro industriale e Undine è, come dice il nome stesso, la rappresentazione del mito dell’Ondina, ninfa che fa parte del folklore europeo, leggendaria creatura d’acqua, che per conquistarsi l’anima deve innamorarsi di un mortale e che si vendica se questi non riesce ad amarla. Undine, pochi minuti prima del folgorante incontro con Christoph, sta seduta in quel bar con Johannes. È la scena iniziale del film e lui le spiega che la sta per lasciare. La risposta di Undine è spietata: se mi lasci, sai che ti ucciderò. Ma subito dopo finisce inzuppata a terra con il palombaro e scoppia l’amore.
Se il cinema tedesco sta ritrovando, come in effetti sembra, quell’ondata vigorosa come fu negli straordinari anni ’70, Petzold è senz’altro uno dei protagonisti del rilancio. “Undine” è un film che spezza ogni linearità, è geometricamente sghembo, seduce attraverso il suo essere misterioso, inafferrabile. A maggior ragione, quando da metà in poi, lascia ogni ormeggio realistico e si immerge in uno scenario immaginifico, così caro al regista di “Il segreto del suo volto” e del precedente “Transit” (in Italia “La donna dello scrittore”), dove i corpi diventano fantasmi fluttuanti, catturati dallo sguardo e subito dopo negati, come se la storia si destrutturasse continuamente, in un melò sensitivo e disperato.
Passato in Concorso all’ultima Berlinale, dove Petzold è praticamente di casa, è un film dunque che osa sfondare i confini di una narrazione rassicurante, magari anche con qualche eccesso di simbolismo (il palombaro in miniatura, i modellini che spiegano la storia urbanistica di Berlino – unita, divisa, infine ancora unita - come illustra ai turisti Undine, che lavora da freelance al Märkiches Museum), ma che si permette un finale che sgomenta per il suo interrogarsi tra mito e realtà, in un triangolo di sentimenti che risalgono a galla, per morire e rinascere continuamente, dividersi e ritrovarsi.
Paula Beer, già presente in "Trandist" e giustamente premiata a Berlino (ma l’avrebbe meritato anche il film), è una Undine dai gesti sfuggenti e dallo sguardo magnetico; Franz Rogowski, che si avvia a diventare l’alter ego del regista, è un Christoph scosso e inquieto, come tutto il film. Che tra Bach e Bee Gees, non vuole trovare rive dove acquietarsi e resistere al richiamo dell’acqua e delle ondine.
Voto: 8

“PADRENOSTRO” (chissà perché tutto maiuscolo e unito, pur nella mitologia evidente del ruolo) s’infila negli anni tormentati dal dramma del terrorismo, qui di stampo brigatista, cercando una chiave interpretativa alternativa, seguendo la reazione del bambino Valerio, il cui padre (Favino) viene ferito in un attentato, nel quale muore il terrorista. Siamo a metà degli anni ’70 e Valerio, che assiste alla tragica scena senza farsi notare dalla mamma, rielabora questo drammatico evento facendo la conoscenza di Christian, un ragazzo più grande di lui, che sembrerebbe inizialmente una figura fantasmatica, ma che poi viene “riconosciuta” anche dal resto della famiglia.
A Claudio Noce, il cui padre era vice-questore all’epoca, non interessa un’ulteriore lettura storica e politica di quegli anni (il terrorismo, cuore centrale dell’idea portante, resta spesso laterale alla narrazione), ma semmai la volontà, anche protettiva, di tacerlo, nasconderlo, in famiglia come in società: lo sguardo di Valerio diventa quindi la rielaborazione di una generazione nel fare i conti definitivamente con quel periodo, per trovare il modo per superarlo, come la scena finale nella metropolitana induce a suggerire. L’intento è stimolante, ma a Noce non riesce purtroppo un’adeguata simbiosi nello sconfinamento continuo tra la realtà e la sua proiezione che Valerio crea; e questo diventa già un problema. In più, volendo aggregare cinema d’autore e cinema di genere, costringe il film a subire tutto un armamentario estetico (ralenti, inquadrature sghembe, sfocati, movimenti di macchina irrilevanti ed esibizionisti), che non sembrano spesso giustificati (un male ricorrente di molti registi che vogliono farsi “notare”), scatenando spesso emozioni a comando, come l’uso delle canzoni dell’epoca a palla (De Gregori durante la sparatoria, la PFM nella cruciale agnizione di Christian) o, peggio ancora, come l’ormai abusato stop immagine-sguardo in macchina finale (con tanto di spiegone su chi sono i personaggi da adulti). Peccati non trascurabili per un film che non ha comunque mai la forza di assecondare le intenzioni e i diversi temi aperti, risolti sempre grossolanamente. Voto: 5.
“Waiting for the barbarians” (“Aspettando i barbari”, non si capisce perché stavolta non si sia tradotto un titolo facile, facile…) narra di un avamposto di frontiera imprecisato nel deserto, dove un magistrato che lo amministra, sensibile alle culture degli altri, riceve la visita del colonello Joll (Johnny Depp, solita bizzarria aggiunta), che non ha la stessa clemenza nei confronti della popolazione indigenza. Siamo com’è evidente dalle parti del deserto dei tartari, con annessi scenari immensi alla Lawrence, ma l’atmosfera si ferma qui. Ciro Guerra, dopo il magnifico “Oro verde – C’era una volta in Colombia”, stavolta, al suo primo film in lingua inglese, fa purtroppo tutto da solo e rinuncia alla coregia di Cristina Gallego, ex sua compagna nella vita. Tratto dal romanzo di J.M. Coetzee, qui anche sceneggiatore, è una storia basica ed elementare, con la quale si ricorda come i barbari in realtà siamo noi e non i popoli che vivono i propri luoghi, lontano dalla supposta civiltà. Lo stile resta un po’ grezzo e una sua efficacia il film fatica a trovarla, sperso in una superficialità costante. Nel cast anche Robert Pattinson, Mark Rylance (probabilmente il migliore) e Greta Scacchi. Passato a Venezia l’anno scorso, senza lasciare traccia. Voto: 6.


 
  Ultimo aggiornamento: 20:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA