Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Oltre l'ultimo respiro: il gesto finale di Godard
Il cinema saluta un suo grande Maestro

Martedì 13 Settembre 2022

Si direbbero giorni in cui stiamo separandoci da alcuni miti, le ultime scaglie di un secolo che sembra ancora ieri ma di fatto non ci appartiene più: a poche ore dall’addio di Elisabetta II, saluta il mondo anche Jean Luc Godard, di altrettanta nobiltà, senza dimenticare un terzo addio, quello di Gorbaciov, che più degli altri ha ribaltato e ricodificato le geografie dei territori e le politiche dei suoi sovrani. Ma anche Godard non è stato da meno: quando uscì nel 1960 “À bout de souffle”, che da noi divenne “Fino all’ultimo respiro” fu come percepire l’esistenza di un altro cinema, dove linguaggio e immagine si esprimevano con sorprendente novità, esplorazione di un nuovo pianeta: la sintassi si dava nuova forma. Una florida rivoluzione.

Non è facile spiegare perché questo artista (chiamarlo soltanto regista sarebbe riduttivo: è stato tutto, di più), sia uno degli autori fondamentali della storia del cinema, in assoluto tra i più innovativi, nonostante la sua popolarità (e quella dei suoi film) sia distante da quella di altri suoi insostituibili colleghi: Godard non è Hitchcock o Ford, per dire, amatissimi anche dal pubblico più vasto possibile, appartiene invece appartiene a una cerchia compattamente più intellettuale, a quella Nouvelle Vague che decise a metà degli anni ’50 di sovvertire il cinema “di papà”, con il gruppo dei “giovani turchi” (Chabrol, Rohmer, Rivette e ovviamente Truffaut, il più sentimentale di tutti) sulle barricate del cambiamento armati di cinepresa e idee, dopo gli anni trascorsi, come critici, ai “Cahiers” di Andrè Bazin, il loro vate. Erano anni inquieti, a tutt’oggi irripetibili. E forse nessuno come Godard, rispetto al gruppo, fu altrettanto capace di tradurre, non solo sullo schermo, quella spavalda irrequietezza, quell’esistenza tormentata e anche scostantemente antipatica, votata a percorrere le strade del cinema e della società con la medesima euforia, manifesto di un desiderio di sposare la sua volontà provocatoria sia sul set che nelle strade, tra il jump-cut e Mao.

Osannato e amato da tutti quelli che amano il cinema, Godard, nato a Parigi nel 1930, ha lasciato il mondo nel momento ritenuto da lui più giusto, come il suo carattere imponeva, ormai dissecata la possibilità di “esistere” a pieno titolo. Esausto, è ricorso al suicidio assistito. Come Monicelli e Lizzani, che però scelsero un modo più drammatico. Ha firmato film imprescindibili come “Questa è la mia vita”, “Il disprezzo” (definitivo saggio sul metacinema), “Bande à part”, con una delle corse più copiate di sempre, “Il bandito delle 11”, “La cinese”, tutti girati prima dell’epocale ’68; ma ha attraversato anche i successivi cambiamenti cercando di lasciare sempre un segno, da “Prénom Carmen” (Leone d’oro 1983, consegnato dall’allievo Bernardo Bertolucci) fino alla monumentale “Histoire(s) du cinéma” e ancora più in là, con le ultime apparizioni cannensi (“Adieu au langage”, “Le livre d’image”).  Non si è limitato a fare film, ma li ha smontati e ricostruiti, ne ha assecondato il montaggio, ha catturato la sintesi fotografica (“Se la fotografia è la verità, il cinema lo è 24 volte al secondo”, disse un giorno), ha consumato la sua inesauribile vena creativa, non aderendo a mode e sistemi, ma sempre anticipandoli o comunque sottomettendoli alle proprie esigenze (il linguaggio del video, l’avvento del digitale, l’uso del 3D), attratto sempre dall’arte e dalle sue manifestazioni, probabilmente non sempre compreso, ma semplicemente adorato, come ogni mito reclama, sempre fuori da binari regolari.

Alberto Farassino che lo studiò come pochi, non solo in Italia, nel celeberrimo “Castoro” a lui dedicato, ne ricostruisce una carriera intessuta di genialità e contraddizioni, mostrandone tutta la grandezza e le sue crisi, dove il sopravvento del significato dell’opera cinematografica si sposa felicemente con la sua ambiguità, per quella “morte” e “rinascita” continua del cinema: un testo indispensabile. Probabilmente Godard resterà un artista eterno, uno dei nostri amati immortali, capace di suscitare continui approfondimenti e riletture: un genio dell’arte e un uomo a tratti insopportabile, come quando rinunciò all’appuntamento con l’amica Agnès Varda, accorsa a trovarlo portandogli anche dei dolci, ma rimasta impunemente fuori dalla porta della sua casa, perché il Maestro non andò mai ad aprire, pur sapendone l’arrivo.

Di Godard, insomma, ci resta un patrimonio assoluto. Parafrasando il film che ne rivelò tutta la grandezza: oltre l’ultimo respiro.

 

 

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