Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Malinconici padri e vati al tramonto
La vita è breve: il rimedio è ubriacarsi

Venerdì 21 Maggio 2021

Da dove cominciare per spiegare il valore e l’interesse di un film come “The father” (al quale il titolo italiano aggiunge, come sempre, l’inutile “Nulla è come sempre”?) Sì, certo: da Anthony Hopkins. Nel suo volto, lo smarrimento scava un progressivo distacco dalla realtà, come se il suo corpo e, ancora di più, la sua mente faticassero a trovare un appiglio per comprendere ciò che si muove attorno, in uno spazio tra l’altro ben delimitato dalle pareti domestiche. Bisognerebbe cominciare da lui e non solo per l’Oscar che ne ha benedetto la performance straordinaria, pronta a ricordare come questo attore gallese abbia una carriera eccellente, con personaggi iconici come Hannibal Lecter, ma anche altrettanto memorabili come il maggiordomo James Stevens in “Quel che resta del giorno”. Invece no. Ciò che rende spiazzante il film dell’esordiente Florian Zeller, che qui scrive assieme a Christopher Hampton anche la sceneggiatura (altro Oscar) tratta tra l’altro da una sua pièce teatrale, è il montaggio di Yorgos Lamprinos, che rende “visibili” gli slittamenti continui dentro la memoria non solo del protagonista, ma anche dello spettatore, che si ritrova spaesato nel governare una scena dove oggetti (si pensi soprattutto al ruolo dell’orologio), personaggi e situazioni modificano la loro percezione legandola alla mente, in una specie di labirinto continuo del pensiero, di una realtà sfuggente che cambia costantemente e sempre più inafferrabile. Già portato al cinema sei anni fa da Philippe Le Guay con “Florida”, dove Jean Rochefort rivestiva il ruolo di Hopkins, la storia è quella di Anthony, un uomo che ormai viaggia oltre l’ottantina (non a caso nato nello stesso giorno dell’attore), che convive con la sua demenza senile, in un appartamento dove entrano ed escono la figlia (mentre di un’altra sentiremo molto parlare), il genero, le badanti eccetera, in un frastornante fraintendimento della cognizione, a cominciare perfino dall’appartamento in cui l’anziano abita. In questa confusione di realtà cangianti, Hopkins modella un’ulteriore figura dominata dalla pazzia, scardinandone i passati furori e crudeltà, abbracciando al contrario una malinconica, devastante sconnessione, che tocca momenti di grande tenerezza e commozione. Va da sé che Olivia Colman, nel ruolo della figlia Anne, è altrettanto brava a muoversi nello spazio nebuloso della mente paterna, fino al salto finale, dove improvvisamente le pareti protettive dell’appartamento assumono quelle più drammatiche di un ospedale, dove tutto sembra almeno conciliarsi con la realtà. L’impianto teatrale del film non nuoce. Al contrario espande quel disagio costante, che il mirabile montaggio cattura, trasformando lo spazio limitato nell’universo perduto di chi non riesce più a comprendere dove stia vivendo e perché. Voto: 7.

L'AUTUNNO DEL VATE - Gli ultimi anni al Vittoriale di Gabriele D'Annunzio, ormai inviso al fascismo. Per controllarlo arriva il giovane federale di Brescia, che però a poco a poco resta affascinato da questo uomo, pur in decadenza fisica, ma ancora capace di conquistare l'attenzione. L'esordio di Gianluca Jodice ("Il cattivo poeta") è attento alle architetture e all'atmosfera cupa che avvolge il declino, ma resta aggrappato a una narrazione sicura e convenzionale, dedicando quasi più tempo alla vita del controllore che non a quella del controllato, disperdendo così la materia di rifiuto intellettuale e fascinazione ancora intatta. Castellitto regge perché è più sobrio del solito, il giovane Patanè dà vaghezza al suo smarrimento. Voto: 5,5.

DENTI DA LATTE - Si fa apprezzare “Babyteeth” (Denti da latte) dell’esordiente australiana Shannon Murphy. Ci parla di Milla, una ragazza con la passione della musica, che scopriamo ben presto essere malata di cancro. Ha una famiglia piuttosto singolare, con il papà psichiatra e una mamma sciroccata, che si impasticca di ansiolitici. Milla, in circostanze quasi drammatiche, conosce Moses, un coetaneo sbandato, senza casa (la madre non lo vuole vedere) e senza soldi, sgarbato nei modi e decisamente opposto all’ambiente borghese in cui vive la giovane. Procedendo per brevi capitoli, intitolati spesso ironicamente, il film percorre una strada abbastanza originale, ponendo la malattia sempre in modo laterale, comunque quasi mai diretto, all’interno di una commedia, giocata con intelligenza su continue ellissi. Il tono del cazzeggio iniziale, dai contrasti aperti, si smorza via via, con una seconda parte più corposa, che si addentra in un finale inevitabile, ma anche stavolta risolto con discrezione, soprattutto nell’ultimo capitolo. La sceneggiatura descrive con cura i personaggi, gli attori rendono sincera ogni azione, la regia è sobria e spigliata e si ritaglia almeno una grande scena, come quella del pranzo collegiale. Spiccano i due giovani interpreti Eliza Scanlen e Toby Wallace,quest'ultimo premiato con la Coppa Mastroianni a Venezia. Voto: 7.

CHI NON BEVE IN COMPAGNIA... - Secondo una curiosa teoria un gruppo di professori liceali, tutti maschi, si mette a bere per colmare il deficit di alcol in corpo, in grado, se in quantità sufficiente, di migliorare le prestazioni intellettuali e fisiche, cercando di spingere tale pratica anche tra gli studenti. Poi si sa: se l'appetito vien mangiando, anche bevendo finisce allo stesso modo. "Un altro giro" è un film che ha goduto di un'attenzione sorprendente, raccogliendo premi (compreso l'Oscar al film internazionale), tra i meno indisponenti del regista danese. Un inno controverso alla libertà, che rischia però di finire soffocato dalle sue stesse provocazioni, anche se tira un'aria da "Mariti" di Cassavetes, che intriga lo spettatore. Grande prova di Mads MIkkelsen. Voto: 6.

 

Ultimo aggiornamento: 14:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA