Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Leda alla spiaggia: figlia oscura, film acerbo
C'mon c'mon: tra Wenders e l'America

Venerdì 8 Aprile 2022

Leda (Oliva Colman, al solito brava) sta sola su una spiaggia greca. Guarda il mondo che le gira attorno, ascolta. È una docente universitaria di letteratura comparata e la sua occupazione principale è tradurre Yeats in italiano. Leda non è una donna simpatica, pone una barriera tra sé e gli altri: è un po’ scontrosa, quasi insofferente, anche nelle piccole cose quotidiane. In spiaggia, dove si reca dal piccolo appartamento che ha affittato, è spesso infastidita da una famiglia chiassosa e maleducata, che sembra legata alla piccola criminalità locale: la madre Nina (Dakota Johson), la figlia Elena, che va in crisi quando perde una bambola, che Leda trova ma al momento non restituisce. Vive di incroci di sguardi questo “La figlia oscura”, che l’attrice Maggie Gyllenhaal, sorella di Jake, all’esordio come regista, ha tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, spostando la location dall’Italia meridionale a Corinto e americanizzando i personaggi; e vive di ricordi, accidentali conflittualità, snobismo intellettuale e disarmonia sociale, mentre dal racconto affiorano frammenti del passato (da giovane è Jessie Buckley) e Leda si confronta con l’altra madre che ha di fronte, lei che di figlie ormai grandi ne ha due. Il mondo di Leda è anche quello della sua mansione: tradurre; e come Yeats prende forma in altre lingue, anche il paesaggio umano che la circonda ha bisogno di una trasposizione e per fare questo ecco che Leda si avvicina a quel mondo che tanto detesta, per comprenderlo meglio. Gyllenhaal gioca la carta del paradosso, declinando l’interiorità del personaggio, così complessa e rigida, stando attaccata ai corpi, cercando di scoprirne sentimenti e pensieri attraverso le azioni; ma se la sceneggiatura (premiata un po’ generosamente a Venezia) sa accompagnare l’idea originale del romanzo, la regia ancora acerba soffre nell’incamerare una materia così sfaccettata, appiattendo lo sguardo sulla semplificazione dei gesti. Soprattutto fatica a dare spinta emotiva alle scelte che Leda fa (come non restituire la bambola scomparsa), facendo respirare poco anche le coordinate del passato, quando si ripensa giovane incapace di gestire tranquillamente il lavoro e la funzione di madre. Leda asciuga risentimenti ed emozioni, costruendosi una corazza forzata nei confronti del mondo, chiudendosi in una solitudine che alla fine la rende più irrequieta: la spiaggia che doveva darle serenità, si rivela un luogo dove cresce semmai la sua ostilità. Qui tra intrecci amorosi, smarrimenti e azioni non esemplari, si parla soprattutto di donne e maternità problematiche. È un esordio che lascia tracce di interesse in un film che pulsa saltuariamente in un afflato femminile. Così interrogarsi sul ruolo di madre e donna disperde la sua reale efficacia sullo schermo. Voto: 6.

C'MON C'MON - Il bianco e nero, il formato 4:3 che è già una dichiarazione d’intenti, uno zio che di mestiere va in giro per l’America intervistando bambini e adolescenti per capire cosa si aspettano dal futuro, e un bambino che è suo nipote, figlio della sorella con la quale riannodare i rapporti dopo la morte della madre e il cui marito non è troppo in salute. Tre città, tre modi di vivere: Los Angeles, New York, New Orleans. Con “C’mon c’mon” Mike Mills torna ai temi più cari, dove la morte, l’elaborazione del lutto, i rapporti parentali diventano il percorso accidentato dei personaggi. Un po’ wendersiano, un po’ sulle spalle di Joaquin Phoenix, che lascia lampi di autenticità come genitore aggiunto, al pari delle interviste reali in un contesto finzionale. Voto: 6,5.

 

Ultimo aggiornamento: 15:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA