Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

L'angelo dei muri, intenso ritratto di solitudine
Divertono i tuttofare, doppie vite spiazzanti

Venerdì 10 Giugno 2022
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Di Lorenzo Bianchini, regista friulano indipendente, già autore in passato di lavori che si sono fatti vedere con interesse, a partire da “Oltre il guado”, la sua opera di 8 anni fa probabilmente più conosciuta, si torna a parlare grazie al suo ultimo film “L’angelo di muri”, passato l’anno scorso anche al Festival di Torino. Stavolta la produzione comincia a essere più sostanziosa, a partire dalla friulana Tucker, passando per Rai Cinema e My Movies e questo ha permesso la presenza di un attore di rilievo come protagonista (Pierre Richard, solitamente frequentatore di commedie, quindi a maggior ragione una scelta rilevante e coraggiosa) e di un direttore della fotografia come Peter Zeitlinger, con cui Herzog ha firmato molti film, nell’ultimo ventennio. Ma se la confezione risulta essere più rilevante, il cinema di Bianchini resta intatto nelle sue prerogative. Qui siamo a Trieste, che in realtà si vede solo in qualche frammento di sfuggita, essendo tra l’altro il film girato quasi tutto all’interno di una casa. Qui ci abita un uomo anziano, che non ha la possibilità di pagare l’affitto. Viene quindi sfrattato, ma anziché andarsene, costruisce in un’ala della casa, alla fine di un lungo corridoio, un rifugio nascosto, dal quale può scrutare quello che avviene nella dimora, lasciando una grata posticcia, come unica possibilità di uscita. Che purtroppo verrà chiusa ben presto. Bianchini, che scrive, dirige e monta il film, segue la propria esplorazione minimalista attraverso silenzi e scrutamenti (l’uomo controlla il viavai attraverso un foro, che sembra l’evidente metafora del cinema: e d’altronde un suo lavoro precedente si intitolava: “Occhi”), immergendo il film nella cupa esibizione di un luogo abbandonato, attraversando lo spazio con lunghi piani-sequenza (si veda quello iniziale dove si “scopre” già il senso del film) e morbidi movimenti di macchina. L’arrivo di due donne, una bambina con la propria madre, come nuove inquiline, porta lo scompiglio nell’uomo, che Bianchini fa interagire come gioco di fantasmi allo specchio, perché di tutta la storia resta profondo il senso quasi sovrannaturale delle cose, dove i corpi (e lo è anche quello della casa, così spesso nudo e spoglio) si attraggono e si spostano senza rispondere alle abituali dinamiche, lasciando in sospeso ogni spiegazione e verosimiglianza. Forse c’è soprattutto un esercizio di stile, che a volte sembra quasi prendere il sopravvento, e la durata a tratti può sembrava eccessiva, ma il mistero che circonda questa storia porta lo spettatore a interrogarsi su chi sono questi personaggi e ad accettare un percorso, all’interno della casa, all’interno della storia, che non può che lasciare tutte le ambiguità di cui si nutre questo thriller (più che horror), che a tratti ricorda Avati e alla fine resta saldamente nella memoria. Voto: 7.

COMMEDIA IDRAULICA  - Una piccola ditta di idraulici assume in prova per una settimana il giovane marocchino Moha, in sostituzione di un pensionato, ma il capo squadra Valero lo prende subito di petto, gli dà soltanto sei giorni di tempo per dimostrare le proprie capacità e la loro relazione professionale rischia di far naufragare la qualità del lavoro. "I tuttofare" è una commedia simpatica e divertente, che affronta problematiche sociali attraverso siparietti quotidiani, che strappano qualche sorriso e mostrano una realtà sociale variegata e spesso incontrollabile. Niente di più, ma non vuole nemmeno esserlo. Passato in Concorso l’anno scorso a Locarno: il divertimento è spesso centrato. Voto: 6.

UNA, DUE, O FORSE PIÙ - Chi è Judith? E soprattutto chi è Margot? L’ambiguità della propria identità è sempre un tema avvincente: il doppio, come elemento sfuggente, come specchio spesso opposto, come rifugio, sospetto, indecifrabilmente molteplice. Tra Francia e Svizzera la vita di Judith scorre apparentemente serena: sì, certo lo stress non manca, ma è anche inevitabile con un lavoro dinamico. Judith fa la traduttrice per organizzazioni internazionali. Poi c’è Margot. Che è l’altra faccia di Judith, che è sempre Virginie Efira, esposta in una storia che le sta pian piano chiedendo il conto. Judith, Margot: un marito da una parte, un compagno dall’altra; due ragazzi da una parte, una bambina dall’altra. In mezzo c’è lei, che gestisce sempre più faticosamente questo doppio ruolo e le bugie; e poi basta un attimo, una banale dimenticanza, per far emergere questa inattesa dicotomia alle rispettive famiglie, non certo allo spettatore che impara da subito a distinguerle, sovrapporle. Hitchcock, mettiamo anche magari Kieślowski, tanto per cominciare. Sì, ma Antoine Barraud sta al di sotto, nonostante il pregevole piano-sequenza, con il quale il film si avvia in una lussuosa boutique, che dà il via alla serie di mistificazioni e fraintendimenti. Il meccanismo fatica a trovare lo sbandamento crudele, allo spettatore resta solo la curiosità di sapere come andrà a finire (e lo sarà rivelando anche finalmente il titolo, "La doppia vita di Madeleine Collins"), mentre Judith e Margot attraversano più volte la frontiera, che non è solo quella geografica. Voto: 5,5.

 

Ultimo aggiornamento: 11:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA