Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Di Costanzo, Servillo, Orlando: film splendido
Days: grande cinema, The last duel: no

Giovedì 14 Ottobre 2021

Nel prologo del film vediamo alcune persone parlare di fronte a un falò, di notte. Sono guardie carcerarie. Il loro capo (un Toni Servillo di rara compostezza) racconta di quando ragazzo, andando a caccia con il fratello maggiore, sparò a una tortora, ferendola: anziché ucciderla come avrebbe fatto il fratello, se la portò a casa, curandola. Un comportamento anomalo, che denotava tuttavia una compassione d’animo non comune, forse perfino esagerata. Che però spiega tante cose. Il carcere dove prestano servizio sta per chiudere. Molti dei detenuti sono stati già trasferiti. Ma c’è un intoppo. Gli ultimi 12, a causa di un’ispezione nella struttura che doveva ospitarli e che è stata chiusa, devono rimanere ancora lì per qualche giorno. E alcune guardie, quindi, con loro. Il tempo trascorre e l’ok per la partenza non arriva.Il cinema perimetrale di Leonardo Di Costanzo, così preciso nell’identificare le coordinate di riferimento, dopo “L’intervallo” e “L’intrusa”, i suoi lavori più famosi, regala il suo film migliore: “Ariaferma” è splendido. Racchiuso in un carcere isolato, nel mezzo di una natura aspra e spesso ostile, vissuto su una costante attesa di una partenza che non arriva, consumato tra rapporti danneggiati e costanti ostilità, il film accomuna inevitabili scontri tra guardie e reclusi, soprattutto per l’immangiabile cibo servito e puntualmente rifiutato, in un inatteso tentativo di conciliazione, partito improvvisamente da Carmine Lagioia (un Silvio Orlando ambiguamente sospeso tra provocazione e disponibilità), che si offre di fare da cuoco per tutti, proposta alla quale Gaetano Gargiulo (Servillo) sente di dover rischiare, accettandola. Leonardo Di Costanzo, come sempre nel suo cinema, trova che la solidarietà sia l’unica speranza per poter spiantare il male, qualunque esso sia, frutto sempre di divisioni, soprusi ed emarginazione: i 12 carcerati, numero simbolicamente apostolico, sono un’entità collettiva che si differenzia per colpe, carattere, etnia, difficilmente controllabili in una situazione estrema, all’interno di un edificio ormai abbandonato, ma il capo delle guardie accetta la sfida, convinto che, come con la tortora, ogni ferita possa essere, almeno temporaneamente, suturata. Splendidamente fotografato da Luca Bigazzi, che ostenta la durezza del paesaggio e dell’architettura interna, tra corridoi spettrali e celle disadorne, confluenti tutte in una circolarità da rotonda, “Ariaferma” si nutre di un’umanità sorprendente nel luogo meno probabile (si veda la figura del giovane Fantaccini, destinato a una possibile lunga carcerazione), dove la natura dell’uomo (qui tutti maschi, tranne la direttrice che esce presto di scena) riserva la scena più incredibilmente “romantica”: una cena tutti insieme senza manette a lume delle torce. Non perdetelo. Voto: 8.

IL SILENZIO DEI CORPI E DELLE ANIME - Kang osserva la pioggia che cade. Si lava: ha un curioso terzo piccolo capezzolo a sinistra. Non (è un nome) è un giovane che prepara meticolosamente la cena. Kang incontra Non in un hotel per un massaggio che si fa sempre più erotico. Kang dopo aver pagato Non gli regala un carillon con il tema di “Luci alla ribalta”. Kang e Non mangiano in un locale. Kang torna a casa, si addormenta e al mattino si sveglia: guarda il vuoto. Non invece si ferma in una strada e riascolta il carillon, mentre il rumore assordante del traffico copre la musica chapliniana. Tsai Ming Liang se possibile aumenta ancora la sottrazione del cinema: qui non ci sono dialoghi, tanto che il film ironicamente propone all’inizio la scritta questo film non è volutamente sottotitolato. Le scene si susseguono nella loro consueta, esemplare staticità. Parlano i corpi, i rumori, i silenzi. Il tempo evapora. Un’opera struggente, intrisa di solitudine e malinconia, con un finale “patetico”, che esalta l’arte di un regista che continua a commuovere, anche se forse non può sorprendere più. Voto: 7,5.

E DEL DUELLO RESTÒ IL RUMORE - Prendete “I duellanti”, che ne segnò un sorprendente esordio, e allargate il quadro epico confluendo nella magniloquenza di “Il gladiatore” e “Le crociate”, che piegarono gli istinti autoriali alla maestosità dello spettacolo. Siamo nella Francia del 1300, guidata da Carlo V. Due condottieri amici (Jean e Jacques – Matt Damon e Adam Driver) rompono la loro amicizia, quando Jacques non solo strappa il comando di una zona, detenuta per 20 anni dal padre di Jean, ora morto, ma stupra la moglie dell’ex amico, temporaneamente lasciata sola al castello. Ridley Scott torna nel Medioevo attraccando dalle parti del #metoo, trovando in Marguerite (una battagliera Jodie Corner) una figura di proto-femminismo intenta a chiedere giustizia alla Storia, con abbondante anticipo sui giorni nostri, anche a costo di rimetterci la vita, rischiando di venire decapitata nel caso Dio la rendesse spergiura a seconda del verdetto del duello finale, perché la parola della donna non contava allora nulla (e d’altronde anche oggi non è raro accada che tali denunce vengano messe in dubbio o in discussione, pur nel caso di evidenze inconfutabili). Scritto da Ben Affleck, lo stesso Matt Damon e Nicole Holofcener, diviso in tre blocchi narrativi (Jean, Jacques e la moglie), in cui ognuno esprime la propria verità, "The last duel", rimandando chiaramente al capolavoro di Akira Kurosawa “Rashomon”, vanta pagine illustrate con energia sostenuta ma tutto sommato stanca, catalizzando una storia di amicizia e di tradimento, attraverso l’ambiguità dei ruoli e degli accadimenti, dove la dimensione storica cede facilmente all’esigenza da romanzone popolare, i corpi e la ferraglia gridano in continue battaglie canonizzate ormai in un quadro ben consacrato, e la veemenza degli scontri fanno da contraltare al gioco di fioretto dei dialoghi e dell’ambiguità sovrana, espresse in modo puntiglioso nel processo che prelude al duello, scandito da autentico blockbuster per tempi e incertezze del risultato. Al di là di questo, del Medioevo restano gli sfondi, della storia tre versioni senza grandi diversità e del duello un gran rumore. Voto: 5.

CHIAMAMI, SARÒ IL TUO ROBOT - Alma lavoro nel prestigioso museo Pergamo di Berlino. Accetta per finanziare il lavoro di ricerca, di sottoporsi a un programma di relazione tra umani e androidi: si dovrà accompagnare per alcuni giorni con un uomo artificiale che svolgerà la funzione di partner perfetto, un robot ideato per dare felicità. Maria Schrader torna alla regia con un lavoro costipato di buone intenzioni, su temi fondamentali della vita (l’amore, la maternità, Dio, il lavoro), ma dimenticando un equilibrio narrativo soddisfacente e meno ambiguo. Se l’essere umano è nella sua imperfettibilità insostituibile, il robot ingigantisce soltanto una dimensione kitsch, che trova il suo apice nella scena di sesso all’interno del museo. Siamo dalle parti degli accumuli di Maren Ade e del suo “Toni Erdmann”, ma con meno lucidità. Voto: 5.

Ultimo aggiornamento: 23:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA