Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Da Mina a Sergio Leone e tanto altro:
la musica totalizzante di Ennio Morricone

Martedì 7 Luglio 2020

Nella marea di parole, articoli, ricordi che accompagnerà il saluto a Ennio Morricone, scomparso ieri a Roma all’età di 91 anni, il rischio è quello di perdersi nella fluviale attività di un eccellente musicista, che ha dapprima codificato le modalità della musica leggera italiana degli anni ’60, per poi dedicarsi alle architetture sonore di tanto cinema, sovvertendone regole e tempi, codici e sonorità, imponendo una firma praticamente “autonoma” all’interno di un’opera collettiva e complessa come quella di un film. Intanto verrebbe da dire che Morricone non è solo Leone, con il quale ha magnificamente dato vita a un rapporto artistico straordinario e irripetibile, e dunque eterno, come nel cinema a volte accade, da Rota-Fellini, per restare in Italia, fino a Herrmann-Hitchcock, per sconfinare nell’universo. Sarebbe ingiusto dire che senza la prodigiosa stagione western di Sergio Leone, il valore assoluto dell’opera morriconiana sarebbe meno esplosivo, anche se sicuramente meno popolare. Ma è forse qui, in questo tragitto tra amici nella vita di ogni giorno, che Morricone ha saputo creare un’impressionante riconoscibilità della propria musica, tra sperimentazioni ardite e emozionabilità invadente, dove l’epica arriva a sposare l’orecchiabilità, rincorrendo dissonanze e artefici, con lo spartito che si impossessa di voci, rumori e altre invenzioni, fino a confondere, sovvertire, spiazzare una convenzionalità radicata: da “Per un pugno di dollari” fino a “C’era una volta il West” e oltre, fino alle radici dell’America, l’eco della musica del grande compositore romano è essa stessa artefice di rapimento appassionante, anche se il Maestro, nel tempo, ha tentato di ridimensionarne la portata, forse per non essere troppo contrassegnato soltanto con questi temi di dominio pubblico.
In realtà, come accade anche con un’altra firma italiana nobile delle colonne sonore, quella di Pino Donaggio, Morricone, che nasce musicalmente come trombettista (e si sente dall’uso evocativo degli amatissimi fiati), si destreggia inizialmente sui palcoscenici della musica leggera: sono gli anni in cui la spinta del beat e del twist fa fiorire canzoni che vogliono disfarsi delle sonorità passate. Se Morricone è celebre per aver composto la musica di “Se telefonando” di Mina, con quella costruzione ossessiva a rimbalzo (che il Maestro ritroverà anche nell’altrettanto famosa “Here’s to you” di Joan Baez, tratta da “Sacco e Vanzetti”), i suoi arrangiamenti si rivelano all’epoca innovativi e pieni di audacia, come l’apertura di “Il barattolo” di Gianni Meccia, dove sembra già di sentire il Morricone avventuroso del western.
Nato a Roma nel 1928, da padre altrettanto musicista, diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia, sposato con 4 figli, ha annunciato al mondo, con un necrologio scritto da sé, la propria morte, come fosse in un film di Billy Wilder. Se n’è andato per colpa di una brutta caduta che gli ha leso il femore, incidente spesso fatale alla sua età. Due Oscar, entrambi tardivi: il primo alla carriera nel 2007, il secondo nel 2016 per “The hateful eight” di Tarantino, un ritorno alle assonanze, ora più cupe, del West; prima era arrivata la Biennale con il Leone nel 1995. Non facile riassumere una carriera con centinaia di film e decine di registi: si potrebbe dire che ha lavorato con tutti i più grandi possibili, da Salce (“Il federale” fu il suo esordio in sala) a Bertolucci, da Bellocchio a Lizzani, da Pasolini a Ferreri, da Petri a Lattuada, da Siegel ad Argento, dai Taviani a Lado, da Comencini a Zurlini, da Boorman a Malick, da Verdone a Fuller, da Brass a Joffé, da De Palma a Friedkin, da Polanski a Carpenter, da Almodóvar a Tornatore, da Zeffirelli a Stone e mille altri ancora, in un vortice sonoro che si richiama da schermo a schermo, spesso scrivendo prima che il regista girasse, privilegio permesso solo ai più grandi.
Immersi in un tripudio di suoni e rumori ecco l’incalzare rapsodico di “Indagine su un cittadino”, le lussureggianti coralità di “Mission” (forse la sua partitura più bella), la struggente melodia di “C’era una volta in America”, le sensualità di “L’uccello dalle piume di cristallo”, il tambureggiante richiamo di “Il buono, il brutto e il cattivo”, gli echi wagneriani di “Gli intoccabili”, la seducente bossa nova di “Metti una sera a cena”, il fischio inconfondibile e i colpi di frusta di “Per un pugno di dollari” (dove tutto cominciò), il pathos della voce di Edda Dell’Orso in “C’era una volta il West”, la stessa della lacerante “La tenda rossa” (tra i suoi capolavori forse meno conosciuti)  e ovviamente il tormentone di “scion scion” di “Giù la testa” e molto altro ancora, tra trombe, armoniche, percussioni varie, in un’armonia costipata e travolgente, inconfondibile e mutevole, enfatica e intimista.
Ci lascia un titano della musica e del cinema, che i veneziani ricorderanno in uno storico concerto in Piazza San Marco nel 2007, un autore che ha piegato le immagini alle sue note e non viceversa, sconfinando continuamente nei generi ma restando fedele alle sue ossessioni, come tutti i grandi musicisti. Di lui si è scritto tanto, oltre che ascoltato tanto, e ancora si continuerà a scrivere a lungo. Magari non di carattere facile, come capita spesso nel mondo artistico più elevato, così da uscire anche in silenzio, appartato: “Non voglio disturbare” ha scritto, con un pizzico di civetteria, nel suo commiato; e i funerali si svolgeranno infatti in forma privata.
Ennio Morricone ci lascia un patrimonio enorme. E sembra di sentire ancora una volta partire quel carillon inconfondibile, mentre Jill (Claudia Cardinale) appena scesa dal treno si avvia a entrare nella vita di Sweetwater, prima che un dolly scopra la scena e lo schermo venga avvolto dagli archi: c’era una volta il West, che non finisce mai. Come la musica.
  Ultimo aggiornamento: 18:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA