Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Coltelli affilati: che spasso il giallo di Johnson
Suleiman, lo sguardo attonito sul mondo

Giovedì 5 Dicembre 2019

Nella sua villa di campagna, il giorno dopo aver festeggiato con la famiglia l’85° compleanno, il noto, e soprattutto ricchissimo, scrittore di gialli Harlan Thrombey viene trovato morto con la gola tagliata. La prima ipotesi è quella del suicidio, ma sarà vero? A risolvere il caso viene chiamato il detective Benôit Blanc, che inizia a interrogare la numerosa famiglia, scoprendo che ognuno dei presenti ha qualche motivo per uccidere il vecchio patriarca, avallando quindi la possibilità che si tratti in realtà di omicidio. O addirittura di una colossale messa in scena del giallista morto, con un’uscita di scena spettacolare. Quando poi si scopre che nel testamento lo scrittore ha lasciato tutti i beni alla giovane infermiera, di origini sudamericane, Marta Cabrera, la ribellione dei previsti eredi porta nella casa lo scompiglio definitivo.
Un giallo scatenato, scritto e diretto da Rian Johnson (scovato dalla Settimana della Critica nel 2005 con la sua opera d’esordio “Brick” e poi finito anche a dirigere il penultimo episodio della saga di “Star Wars”), che ribalta spesso la situazione, pescando dalle geometrie delittuose di Agatha Christie (su tutti “Assassinio sull’Orient Express” per la coralità degli indiziati) e Philo Vance (per la “costruzione” complicatissima del caso), risultando al tempo un esercizio intelligente e molto divertente, con una scrittura brillante, una caratterizzazione dei personaggi incisiva, una regia effervescente, che non si limita alla pura descrizione delle indagini, e un montaggio elettrico, che frantuma la linearità del racconto, con un carosello sfrenato di situazioni.
A farlo diventare poi un film spassosissimo, con il suo inevitabile contorno di cattiverie e crudeltà, ecco un cast di straordinaria efficacia da Daniel Craig (detective con una sottile, sarcastica aderenza al gigionismo: occhio all’entrata in scena con quel dito sul tasto del pianoforte…) a Jamie Lee Curtis, da Chris Evans a Michael Shannon, da Don Johnson a Toni Colette, fino al padrone di casa Christopher Plummer, che anche da morto continua a farsi beffe di figli e parenti: un quadro spietato di una borghesia annoiata, crudele e opportunista, fedifraga e avida.  È in questa chiave di lettura che il film acquista anche una sua ascendenza politica, dove le classi più umili alla fine riescono a ottenere un riconoscimento altrimenti negato, ricompensa di una vita tribolata e misera.
Tra il giallo e la lotta di classe, Rian Johnson si conferma regista e sceneggiatore tutt’altro che banale, al contrario del titolo italiano (“Cena con delitto”, che fantasia), che si disfa purtroppo del “knives out” originale, quel “Fuori i coltelli”, protagonisti della scena finale. Ma siamo abituati. Voto: 7.


IL PARADISO, LA SUA ILLUSIONE - Lo sguardo attonito, lo spaesamento dell’essere, il turbamento dell’esistere: un po’ Buster Keaton, un po’ Jacquest Tati, non una parola di più, più spesso il silenzio. Il cinema di Elia Suleiman trascolora nell’osservazione di chi si mette in scena, ma al tempo stesso diventando invisibile, quasi fantasmatico, una presenza-assenza che permette di fungere da osservatore privilegiato e sconsolato della società di oggi, in quella terra martoriata e in quella Patria negata che è la Palestina.
A dieci anni dal suo ultimo lavoro (“Il tempo che ci rimane”), omettendo la parentesi collettiva di “7 days a Havan”, il regista palestinese, con “Il paradiso probabilmente”, torna ai suoi temi più cari e dolorosi rivoltati in una chiave poetica, sospesa e rarefatta. Partendo e tornando nella sua Nazareth, Suleiman compie un percorso circolare, affrontando i luoghi comuni nel mondo riservati alla sua terra, alle visioni stereotipate e all’idea che il fantasma della libertà aleggi un po’ ovunque. Partendo, in modo caustico e grottesco, dal sabotaggio di un rito ortodosso, risolto con un mirabile fuoricampo, e viaggiando dall’Europa all’America, il regista palestinese si sofferma a guardare l’Occidente in tutta la sua disarmante stupidità. Ecco una Parigi deserta, trafficata soltanto da carri armati, poliziotti e belle ragazze; ecco una New York dove girare armati è quasi obbligatorio, ecco un mondo in preda alle proprie ossessioni e paure, incapace però di proteggersi. Non si salva nemmeno l’ambiente del cinema, come nella sequenza con il cameo di Gael Garcia Bernal.
Il teatro dell’assurdo è un mondo sull’orlo del baratro, che non riesce nemmeno a rendersene conto. Suleiman lo riassume con una serie di quadretti esilaranti, dove tutto è sotto controllo ossessivo, non diverso dalla vita in Palestina, alla quale il film è ovviamente dedicato. È in definitiva un film sulla tragedia un mondo ridicolo, dove il tocco poetico arriva all’improvviso, con l’umorismo garbato di un uccellino o una sedia a rotelle, che ricorda la madre, o ancora nei gesti del lavoro quotidiano di una donna, che prosegue la sua vita con fatica. Voto: 7,5.

L'INGANNO È PERFETTO, IL FILM NO
- Il brivido di un incontro concordato in una chat, il primo approccio, una relazione amicale che sfida il tempo, un doppio segreto da tenere nascosto. Due anziani rimasti soli (Ian McKellen e Helen Mirren, al solito impeccabili) si incontrano attraverso internet. Il gioco, apparentemente collegato al desiderio di trovare qualcuno con cui dividere gli ultimi anni di vita, è in realtà dominato da propositi tutt’altro che pacifici. Bill Condon dirige un film dove niente è fuori posto, anche la facile sorpresa finale: “L’inganno perfetto” è così un teatro della vendetta in punta di fioretto, ma anche terribilmente prevedibile e senza interesse. Voto: 5.
  Ultimo aggiornamento: 06-12-2019 15:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA