Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Brado, un cowboy stanco che guarda a Clint
Astolfo, un pensionato che riscopre l'amore

Giovedì 20 Ottobre 2022

Non mancano di certo le ambizioni a Kim Rossi Stuart nel suo ultimo film, il terzo da regista dopo “Anche libero va bene” e “Tommaso”, ma non bastano sempre un po’ di malinconia rarefatta, la decadenza degli anni, il rapporto conflittuale con i figli, le tensioni morali per raggiungere l’obiettivo di avvicinarsi al cinema di Clint Eastwood, qui pervicacemente rincorso dall’inizio alla fine. Insomma si capisce quindi come ci sia il desiderio di volare alti, ma basterebbero pochi minuti di quelle incrinature della vita che si affacciano nell’età più matura, quella stanchezza profonda del corpo ma ancora aperto al desiderio di resistere e perfino ricominciare a correre, che fanno molto “Cry macho” ad esempio, per capire come anche nella fase ormai senile della sua carriera, il grande Clint resti ancora impareggiabile. Avventurarsi sulle sue tracce può essere quindi pericoloso, a maggior ragione se insisti a farlo capire nel film, con riferimenti espliciti, affinché non ci siano dubbi. “Brado”, nome del ranch dove vive Renato (lo stesso Rossi Stuart) isolato dal mondo, è lo spazio privilegiato per dare sfogo alla propria passione per i cavalli, da sempre trasmessa anche al figlio Tommaso (i nomi tornano nella sua filmografia), ora giunto in questa specie di fallimentare scuola di equitazione per domare un equino bizzarro, che dovrebbe finalmente garantire quel riscatto agognato da tempo, in una famiglia spezzata dall’addio della madre e da un’altra sorella che ha preso la strada del misticismo miracoloso. La metafora sboccia subito, perché da controllare non c’è solo il tentativo di farsi ubbidire da un cavallo ma anche quello di ricucire i rapporti tra genitore e figlio, in un contesto di desolata e problematica diffidenza. In questa specie di western esistenziale, ben calibrato dalla fotografia di Matteo Cocco, si apprezzano una sincerità di fondo nel raccontare una storia di autoemarginazione dal mondo, di disfatte personali e, se non si dovesse per forza ogni volta sentire l’afflato eastwoodiano, anche un certo clima di infelicità perenne da loser, che si addice molto al cowboy sfigato. Ma la sceneggiatura non sempre riesce ad approfondire una superficialità latente, specie in qualche dialogo fragile, dove il giovane Saul Nanni sembra avere la meglio sull’attore-padre Kim (da dimenticare la presenza, invece, di Barbora Bobulova, con un personaggio incontrollatamente sopra le righe), anche quando inizia a intrecciare una relazione sentimentale con Anna, l’istruttrice di cavalli dal carattere fintamente ruvido. Lo sviluppo narrativo è piuttosto intuibile, sia nelle tensioni agonistiche che in quelle più drammaticamente mediche, dove la regia si riserva qualche dettaglio evitabile, per un film che si pone, al pari del cavallo, diversi ostacoli da superare, non sempre con la dovuta attenzione. Voto: 6.

LEGGERO, MA NON TROPPO - A Gianni Di Gregorio non si può non voler bene. Dai tempi di “Pranzo di Ferragosto”, evento alla Mostra 2008, Leone d’oro opera prima, scelto dalla Settimana della Critica, il suo cinema, fatto di personaggi semplici e leggeri, ma tutt’altro che arrendevoli, con un sottotesto non privo di sottili cattiverie, ha sempre trovato il piacere di farsi vedere. Così ora alla quinta regia, dopo un passato anche importante da sceneggiatore (ricordiamo “Gomorra” di Matteo Garrone) e film come “Gianni e le donne”, “Buoni a nulla” e “Lontano lontano”, ecco “Astolfo”, che è anche il nome del protagonista del film, interpretato come sempre dallo stesso Di Gregorio. Sfrattato dalla sua casa in affitto a Roma, il professore pensionato torna tra le colline, dove possiede un vecchio palazzo in decadenza, al pari della famiglia di un tempo. Insediatosi nelle stanze con alcuni personaggi curiosi e nullatenenti, Astolfo deve far fronte a mille problemi, mentre trova il risveglio dei sentimenti con la conoscenza di Stefania (Stefania Sandrelli), relazione osteggiata dai parenti, sospettosi di un amore “interessato”. Se a ogni film qualche fragilità in più è evidente, Di Gregorio mantiene una sincera e affettuosa attenzione per i suoi personaggi, quasi sempre semplici e modesti economicamente, lasciando le punte di sarcasmo, perché anche alla bontà c’è un limite, ai ruoli più istituzionali come il sindaco del paese o arraffoni come il prete che un pezzo alla volta s’impossessa del palazzo. Voto: 6.

 

Ultimo aggiornamento: 23:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA