Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Ambizione, la vera madre di Aronofsky
Meglio una Intrusa di una Famiglia intera

Venerdì 29 Settembre 2017

Il percorso di Darren Aronofsky, regista di “madre!” (scritto in minuscolo, perché fa figo e col punto esclamativo, per lasciare un ulteriore segno), è piuttosto paradossale. Autore generalmente sopravvalutato, il suo film migliore, in una carriera di opere caricate sempre all’esasperazione, è anche quello meno personale, che sembra indicare un malinteso all’origine: “The wrestler”, pur vincendo esageratamente il Leone d’oro (in realtà il premio lo meritava Mickey Rourke), resta comunque un’opera dove il regista newyorchese di origini ebraiche russo-ucraine smette di ingolfare le sue narrazioni con uno stupore esornativo, concentrandosi su una storia già ricca di pathos e malinconico declino.
Regista sempre barocco, poco incline alla sintesi e alla raffinatezza, eccolo dopo lo sconfortante “Noah”, configurare con “madre!” una giostra incontrollata di fracasso e fuoco, delirio e apocalittica distruzione, dove una coppia (Jennifer Lawrence, la madre del titolo, e Javier Bardem) sta restaurando una vecchia casa isolata. Qui arriva all’improvviso una coppia (Ed Harris e Michelle Pfeiffer), che dalla sorpresa di una visita inattesa passa in breve tempo all’occupazione. A ruota giungono anche i due figli e nel parapiglia che si scatena un figlio muore. Sembra già una trama esagerata, ma non è successo ancora nulla. Successivamente, dopo la prima distruzione della casa, la madre rimane incinta e prima di dare alla luce il figlio, la casa viene nuovamente invasa, questa volta da migliaia di fan del marito, che è uno scrittore e ha appena terminato il nuovo libro; e infine anche dall’esercito. E la situazione si fa letteralmente incandescente. Qui ogni forza possibile sembra impossessarsi letteralmente della casa, in un tripudio distruttivo che deflagra anche nell’assordante sonoro.
Aronofsky crea un film totalmente esplosivo, simbolicamente delirante e perfettamente incontrollato, che parte sì con un’atmosfera polanskiana alla “Rosemary’s baby”, ma ben presto svacca volutamente in modo esponenziale. In un gioco circolare, come si intuisce alla fine, di vaneggiamenti allucinati, l’horror inizialmente metafisico si trasforma in un grondante assemblaggio di situazioni abnormi. Le metafore sono servite e quando non sono bastate, lo stesso regista è intervenuto a suggerirne altre: si va dall’egocentrismo vanesio maschile di uno scrittore che “partorisce” il proprio libro, dove la “madre” è ovviamente la musa ispiratrice (il suo cuore strappato ne identifica la creatività), alla rappresentazione biblica del Vecchio e del Nuovo testamento, dove la “madre” rappresenta la Terra e la sua fertilità.
Passato all’ultima Mostra tra i fischi e gli insulti, curiosamente questa evaporazione sconnessa di ogni riferimento plausibile è forse anche la sua unica forma d’interesse, con quel gioco di deragliamenti narrativi e visionari, dove la vera madre in realtà si direbbe l’ambizione di Aronofsky, che stiamo cercando da tempo, forse inutilmente, di comprendere.
Stelle:  1½


L'INTRUSA, STORIA DI EROICA MODERNITA' -  Giovanna (una bravissima e intensa Raffaella Giordano, nella vita coreografa e danzatrice) è la fondatrice di una masseria nella periferia napoletana, dove le madri portano i bambini per proteggere i figli dalla camorra. Un giorno arriva nella comunità Maria (Valentina Vannino), moglie di un pregiudicato in prigione, con una bambina. E la tranquillità viene messa in discussione.
A cinque anni dal suo primo bel film di finzione “L’intervallo”, passato a Venezia, l’ischitano Leonardo Di Costanzo conferma ora con “L’intrusa” il suo sguardo lucido, rispettoso e appassionato. Racconta la vita all’interno di uno spazio esiguo, non nascondendo le quotidianità e successivamente i conflitti che si vengono a creare e se talvolta eccede nella scrittura, lo fa per nutrire la storia con una sincerità e una forza non comune nel cinema italiano.
Presentato con successo all’ultimo festival di Cannes, nella “Quinzaine”, Di Costanzo si dimostra ancora una volta abile lettore della realtà (prima della finzione, ha girato lavori importanti nel campo documentaristico), portando lo spazio filmico a interagire come un vero e proprio personaggio nelle storie umane che racconta. Si parla di camorra, ma la camorra resta fuori, perché come “L’intervallo” non vuole essere un film di genere sull’organizzazione criminale, ma si sforza di far affiorare paure e tolleranze, solidarietà e astio tra persone che sono quasi obbligare a convivere, a ridosso di un mondo malavitoso crudele. Una storia di modernità eroica, dove Napoli resta lì con il suo ingombrante fuoricampo, lontana da ogni retorica melodrammatica del racconto, sospesa in un’atmosfera rarefatta di minaccia, non per questo meno spaventosa. E se le due donne protagoniste rappresentano, nella loro diversità, i lati opposti verso quel sistema maschile criminale che uccide spazi e sogni, libertà e speranza, l’enclave protettiva di un mondo fanciullesco in pericolo è il simbolo di un futuro che forse potrà essere migliore, ma che va costruito pazientemente e non senza contraddizioni.
Stelle: 3½

UNA FAMIGLIA SCONCERTANTE - Avventatamente in gara a Venezia per il Leone d’oro, “Una famiglia” di Sebastiano Riso, è un film difficilmente salvabile, soprattutto a causa di un’ambizione smodata, che trova il suo momento di esaltazione in un’acrobatica e soprattutto del tutto inutile citazione del celebre, antonioniano piano-sequenza finale di “Professione reporter". Ma anche la storia ha i suoi problemi, dove Maria si è stancata di assecondare Vincent, trapiantato a Roma da Parigi, nell’aiutare coppie che non hanno figli. Vorrebbe finalmente tenerne uno per sé, formando una famiglia.
Opera seconda di Riso, dopo l’altrettanto modesto “Più buio di mezzanotte”, il film precipita in un melò ruvido e scostante, dove Micaela Ramazzotti paga un ruolo sproporzionato alle sue possibilità. Non si affrontano mai sul serio i temi delle adozioni, del traffico dei neonati e dello scenario di un Paese ancora distante da una modernità legislativa, puntando solo sul rapporto conflittuale tra Maria e Vincent (Patrick Bruel) e le loro sedute erotiche rampanti. E tutta la parte finale è narrativamente sconcertante. Avvilente infine la rappresentazione della coppia gay da un regista dal quale ci si aspetterebbe il contrario.
Stelle: 1.
  Ultimo aggiornamento: 03-10-2017 15:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA