Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Amarsi, a morsi: il cuore cannibale d'America
Dardenne più sobri, Iñárritu insopportabile

Venerdì 25 Novembre 2022

 

 

Luca Guadagnino esplora l’horror dopo il remake di “Suspiria” con una storia on the road in America, dove due adolescenti vivono la loro diversità di cannibali. “Bones and all” è un morso significativo. Facciamo la conoscenza di Maren a inizio film quando addenta improvvisamente un dito a una campagna di classe che le mostra lo smalto delle sue unghie, gustandoselo tra lo sgomento generale. Costretta a fuggire di nuovo con il padre per non farsi trovare e abbandonata da quest’ultimo subito dopo, incontra prima un anziano morboso e sinistramente pericoloso come Sully (Mark Rylance) e successivamente il coetaneo Lee, identificati attraverso l’odore che un cannibale emana dal suo corpo. Il viaggio porterà i due giovani in cerca delle proprie radici familiari, fino alle conseguenze più estreme. Se Taylor Russell ruba costantemente la scena allo smunto Timothée Chalamet, Luca Guadagnino ci riporta nell’America reaganiana, quando il cannibalismo si esprimeva attraverso altre forme di “appetito”,  e al cinema degli anni ’80 (si ritrova, tra gli altri, l’uso della dissolvenza incrociata, sempre più dimenticato), dove sul futuro incombe costantemente l’ombra del passato, ed elaborando figure mitologiche, in primis quella di Kronos (Saturno), che ingoiava i propri figli, traccia un commovente percorso, dove la solitudine e il bisogno di amare e di essere amati si esplicita in modo cruento, sposando l’aspetto orrorifico al romanzo di formazione. La poetica del regista sull’età adolescenziale, da “Chiamami col tuo nome” alla magnifica serie “We are who we are”, si consolida attraverso uno sguardo affettivo non comune e a un linguaggio contemporaneo, anche quando nel finale la storia diventa più esplicitamente feroce, dimostrando che l’amore si nutre non solo di sentimenti, ma anche di corpi, dove la carnalità diventa lo specchio di una sessualità estrema e il fiero pasto identifica l’orgasmo. L’audace contrapposizione romantica tra i comportamenti e la disperata necessità di aderire ovviamente a un impulso incontrollabile e a un bisogno estremo di sopravvivenza, trova una profonda radicalizzazione nel randagismo dei due protagonisti (ma c’è tutta l’altra America che scorre così desolata in quelle strade lontane dai centri di potere), in quella collocazione paesaggistica quasi sconsolata, con campi lunghi che lacerano lo sguardo (miglior regia a Venezia 79). L’amore resta l’unica arma di salvataggio, l’ormeggio necessario a cui aggrapparsi, fosse anch’esso destinato a sottrarci pezzi del nostro corpo, una mutilazione che toglie e sazia al tempo stesso. Tratto dal romanzo di Camille DeAngelis ha nel cast anche, tra gli altri, Chloë Sevigny e David Gordon Green. Voto: 7,5.

FINGERSI FAMIGLIA - Lokita è una giovane ragazza, Tori è ancora un bambino. Entrambi provengono dall’Africa subsahariana, arrivati in Belgio. Si fingono fratello e sorella, per farsi coraggio entrambi. Cercano occupazione, ma finiscono nel giro dello spaccio e di malavitosi. Vengono separati, cercano di ribellarsi e la loro vita è sempre in pericolo. I fratelli Dardenne, che a Cannes amano e premiano da sempre alla follia (anche quando lo meritano meno), asciugano ancora di più il loro stile, già discretamente scremato nel tempo, mettono da parte l’ideologia e affidano una storia semplice, anche troppo, e fragile a due giovani interpreti che la rendono plausibile. “Tori e Lokita” è a suo modo quindi sobrio, nonostante la gravità del caso, che può anche commuovere, senza essere ricattatorio. Voto: 6,5.

OTTO E MEZZO? NO, 2. - Forse prima o poi non ci sarà più nessuno a riconoscere ad Alejandro G. Iñárritu talento e credibilità, via via dilapidate dal regista messicano dai tempi, rispetto a oggi assai più convincenti, di “Amores perros”, film d’esordio e a tutt’oggi il suo migliore, mostrando soprattutto con “Babel” e “Biutiful” la capacità di sciupare soggetti interessanti, dentro al suo cinema architettonicamente ingombrante e contenutisticamente vacuo. Si può obiettare che, avendo vinto premi e riconoscimenti (compreso qualche generoso Oscar), qualcosa di buono c’è anche nel suo cinema, ma in realtà “Bardo”, che contiene nel titolo quasi wertmülleriano anche “Falsa cronaca di una manciata di verità”, passato in Concorso a Venezia, è il nadir di una carriera quantomeno altalenante. È la storia di Silverio, giornalista e documentarista messicano trasferito da tempo negli Usa, che torna al suo Paese per ricevere un premio, trasformando il viaggio nell’inevitabile ricostruzione di una vita tormentata e contradditoria, nella quale si può leggere anche un rilettura personale del regista. Costruito a interminabili blocchi di scene madri, dove ogni immagine si divora per inutile, ardito stupore quella precedente, il film smodatamente ambizioso va sulle tracce pericolose di Fellini (il riferimento a “8 ½” echeggia sonoramente), Bergman (soprattutto “Il posto delle fragole”) e rispetto a “ROMA” del connazionale Cuarón (Leone d’oro 2018), dove l’estetica ricercata ha radici solide, sciupa l’almanacco dei ricordi, qui raccolti in una sarabanda infinita. Tra campi di battaglie e balere assordanti, incontri con il padre e la madre, città vuote e gente che crolla improvvisamente a terra, fughe di indios in massa e montagne di corpi, bambini che non vogliono nascere e pesci fuor d’acqua, camminate e voli nel deserto, grandangoli sparati e bande rumorose, il film finisce vittime della propria bulimia, che nemmeno Kusturica. Nel suo continuo cedimento esibizionista, “Bardo” è un film insopportabile, la cui durata (3 ore) allunga inopportunamente la visione. Voto: 2.

Ultimo aggiornamento: 10:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA