MONDO OVALE di

 La fabbrica degli Springboks: orgoglio, preparazione fisica e sistema scolastico 

Venerdì 21 Novembre 2014
 C’è una differenza di approccio al gioco che distingue nettamente la formazione di un giovane neozelandese da uno sudafricano: il primo corre e passa per andare a cercare gli spazi, il secondo cerca l’avversario per avanzare all’impatto. Non è tutto qui, ma basta a dare l’idea del Dna degli Springboks, il cui gioco esprime i valori della tradizione. Combattimento individuale e collettivo, fisicità, durezza, forza mentale e orgoglio sono gli elementi fondamentali. Ben simbolizzati dalla taglia impressionante dei loro avanti e dal mito dei pionieri boeri, forgiatisi nelle terre inospitali, nella fattorie isolate, lontane anche più di 100 chilometri dal campo di allenamento, e che fanno palestra alzando balle di fieno da 20 chili. SELEZIONE SCOLASTICA. In realtà i loro figli oggi frequentano scuole ricche e attrezzatissime che sostituiscono la necessità di centri di formazione federali. Lo spirito competitivo e la forza mentale vengono plasmati nel sistema scolastico, che pensa a tutto fin dai 6 anni. Non c’è settimana senza qualche gara di atletica, nuoto o cricket. Dai 12 ai 18 anni chi sceglie il rugby ha a disposizione strutture e staff che comprendono non solo tecnici ma fisioterapisti e medici. Le squadre delle scuole più importanti (su 7mila istituti secondari solo 21 di fatto hanno sfornato Sprigboks negli ultimni 20 anni) hanno addirittura lo sponsor e di conseguenza spesso le partite sono riprese dalla tv locale. Possono esserci in tribuna anche 3mila spettatori, 20mila nei derby di grido. Gli obiettivi sono le selezioni scolastiche e gli Sprigboks under 20. Lo spirito di competizione è talmente esasperato che in molti casi già dai 14 anni entrano in scena palestra e integratori alimentari al punto che la federazione ha istituto controlli antidoping per eviatare derive. PREPARAZIONE FISICA. Quando escono dalla scuole sono già dei semiprofessionisti pronti per la Currie Cup di categoria e poi per la Vodacom Cup Under 23 che si disputa quando i giocatori più forti sono impegnati nel Super 15. Il passo successivo è la Currie Cup seniores e da lì al Super 15 e alla nazionale maggiore. Per chi non ha un fisico da 110 chili o non è tecnicamente eccelso, si apre la strada dell’Europa. La stagione per un giocatore sudafricano inizia con due mesi e mezzo di preparazione fisica durissima. Senza palla. «Mai visto nulla del genere» ha confessato il francese Frédéric Michalak dopo la sua esperienza agli Sharks. Allenamento anche alle sei del mattino, e poi una seconda seduta di sera. Cura dei dettagli maniacale. «Per noi l’allenamento e la fatica sono sacri, andiamo oltre la soglia del dolore» mi disse un giorno un Dries Coetzer stremato da un giro di pista del "Battaglini" di Rovigo trascinando una grossa ruota riempita di sabbia. Una forza mentale che è anche ottimismo. Fiducia cieca nei propri mezzi. Per un sudafricano la sconfitta dura 24 ore. Poi torna il sorriso e si pensa alla prossima partita. LA SFIDA RAZZIALE. Da questa cultura, nonostante la caduta dell’apartheid, sono rimasti emaraginati i neri. Ce ne sono in tutte le squadre, nazionale compresa. Ma non nella proporzioni sperate. E questo limita la nascita di un rugby multirazziale anche nell’approccio al gioco. Tanto che periodicamente tornano di moda le quote, specie nelle serie inferiori perchè il problema non è che non si convochino i neri in nazionale ma che non c’è una base così ampia e di qualità da cui scegliere. Questione controversa. «Le quote non sono la soluzione del problema» ha ammesso Peter De Villier, il primo head coach nero dei Boks. «È una discriminazione positiva per far fronte a una mancanza di opportunità» ribattono i sostenitori. Da un lato i posti garantiti attirano antipatia sui neri, andando contro al principio meritocratico. Dall’altro però si contrappone la logica coercuitiva per spingere a intervenire sulla base: siccome i neri siamo costretti a utilizzarli, meglio allora darsi da fare per farli giocare e dargli una formazione adeguata. Le barriere sono però prima di tutto sociali: i ragazzi neri non frequentano le scuole ricche, spesso mangiano una volta al giorno e sono costretti a lavorare nel week end. Altro che la partita di rugby. È la prossima sfida che il Sudafrica è chiamato a vincere. (Toni Liviero) Ultimo aggiornamento: 01:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA