LAMPI di

I duecento anni di Melville: ecco perché Moby Dick resterà sempre tra noi

Giovedì 1 Agosto 2019 di Riccardo De Palo
Dal film "Heart of the Sea"
Quando Herman Melville si imbarcò per la prima volta su una nave commerciale - come Ismaele, l'io narrante di Moby Dick - non aveva ancora vent'anni. Viaggiò da New York fino a Liverpool, visitò Londra e poi riattraversò l'Atlantico in direzione opposta. Discendente di eroi della guerra d'indipendenza americana, aveva perso il padre giovanissimo, divorato dai debiti e dalla follia: un trauma che non superò mai. Il mare rappresentava per lui il simbolo dell'avventura, della fuga. La prima baleniera si chiamava Acushnet: lo portò per diciotto mesi a zonzo nel Pacifico; quando approdò a Nuku Hiva, nell'arcipelago delle Marchesi, decise di disertare con un compagno e di restare a vivere con i polinesiani. Insoddisfatto, salì a bordo di una baleniera australiana, e di un'altra proveniente da Nantucket; visitò le isole della Società, soggiornò quattro mesi alle Hawaii; la voglia di nuove scoperte sembrava senza fine.

L'ultima nave fu la fregata United States. Melville tornò sulla terraferma, a Boston, nel 1844, dopo uno scalo in Perù, portando con sé molta ambizione e una miniera di storie. Quando iniziò a raccontarle in forma letteraria, non si capiva mai dove finisse la realtà e cominciasse la finzione. Typee, il suo primo romanzo, si ispirava all'esperienza delle Marchesi: gli indigeni erano diventati pericolosi cannibali. Omoo ne fu il seguito ideale: intrighi e vendette a bordo di una baleniera, in viaggio attorno a Tahiti.

Oggi, a duecento anni dalla sua nascita, il primo agosto del 1819 (e a un secolo dalla sua riscoperta), Melville è universalmente noto per avere scritto un libro mondo, un capolavoro di tutti i tempi, viscerale e sinistro, dedicato alla caccia di un capodoglio albino. Ma in vita l'autore non conobbe mai il successo che, pure, avrebbe meritato. Quando morì, in condizioni finanziarie disastrose, nel 1891, il suo romanzo più celebre aveva venduto poco più di tremila copie e gli aveva fruttato appena milleduecento dollari. D.H Lawrence fu tra i primi ad apprezzarlo; mentre gli italiani devono tutto alla traduzione di Cesare Pavese.

Nella sua casa di Pittsfield, in Massachusetts - oggi diventata un museo dove si vendono magliette con su scritto Chiamatemi Ismaele e l'hi-fi si chiama Pequod come la nave del libro - è ancora visibile l'arpione che lo scrittore aveva portato con sé dai suoi viaggi e che usava come attizzatoio per il fuoco. Fu in questa semplice casa rurale, ribattezzata Arrowhead per le punte di freccia trovate mentre l'autore dissodava il terreno, così lontana dall'immensità del mare, che Melville creò Moby Dick. Nei campi ricoperti di neve - come scrisse in una lettera, nell'inverno di quell'anno, il 1850 - gli pareva di tornare a sentire la «sensazione» dell'Oceano. Ogni tanto Nathaniel Hawthorne, che viveva poco distante, veniva a trovarlo con la moglie Sophia; e qualche volta lo scrittore s'intratteneva con l'autore de La lettera scarlatta nel fienile, dove era sicuro di non essere ascoltato. «Le donne non hanno molto gusto per il mare», ripeteva a Sophia; forse, in cuor suo, provava amarezza per avere messo fine alla sua vita raminga sulle baleniere.



Lo scrittore era sposato con Elizabeth, conosciuta tramite la sorella minore Augusta, che era la sua copista ufficiale (e quindi la prima persona in assoluto a leggere le avventure del capitano Achab). Melville aveva già un figlio, Stanwix; la moglie ne aspettava un secondo ed era molto gelosa di quel romanzo in fase di costruzione febbrile.

Lui era molto ispirato. L'anno precedente era stato a Londra, per contattare qualche editore; e tra i libri che aveva portato con sé in America c'era anche Frankenstein, di Mary Shelley, romanzo in cui il narratore è incarnato da un giovane capitano e il mare ha un ruolo tutt'altro che secondario. Durante il viaggio di ritorno, fantasticava di scrivere una sua «storia di mostri». All'arrivo, a New York, aveva già buttato giù alcune pagine.

Jorge Luis Borges scrisse che l'universo di Moby Dick non è solo di natura maligna, come quello degli gnostici, ma anche irrazionale, come nei versi di Lucrezio. Il mostro marino di Melville echeggia il Leviatano biblico; ed è il suo biancore l'elemento che più disturba il lettore. Tutto un capitolo (il quarantaduesimo) è dedicato soltanto a questo colore «che incute più panico all'anima di quel rosso che atterrisce nel sangue».

Lo scrittore di thriller Luca D'Andrea ha definito Moby Dick «un libro necessario e terrificante»; senza quel romanzo, forse, non avremmo neppure avuto Lo squalo di Spielberg; ma non si tratta dell'unica opera di Melville capace di precorrere i tempi. Bartleby lo scrivano è il protagonista di un racconto molto celebrato; l'impiegato dalla figura «pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida» che ad ogni richiesta risponde «preferirei di no», è un personaggio dalla psicologia irrazionale, come quelli di Kafka. L'innocente Billy Budd impiccato per ammutinamento ha ispirato film, opere, canzoni, divenendo il simbolo di uno stato naturale incompatibile con la società umana. Ma il capitano Achab, e la sua capacità di trascinare l'equipaggio in una «trionfante catastrofe», per dirla con Harold Bloom, è un figura tragica ineguagliata dai tempi di Shakespeare. Ultimo aggiornamento: 17:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA