Chiara Pavan
CHIARA LETTERA di
Chiara Pavan

«Impreparato a dire sempre la verità»: la lucidità corrosiva di Vitaliano Trevisan

Martedì 8 Febbraio 2022 di Chiara Pavan
Il capitolo inedito di Vitaliano Trevisan che chiude "Works" uscito nel 2015

Tenersi in equilibrio sul filo, cercando di non cadere in qualcosa che abbia «un’apparenza di definitivo». Evitare di essere ricattabili, di finire legati mani e piedi, o meglio «mano e penna», e restare ingabbiati «con un fottuto cappio intorno al collo», magari con un mutuo, in quel «mondo umano» che «abbiamo imparato molto presto a detestare». Non c’è scampo, Vitaliano Trevisan ci riporta sempre là dove non vorremmo essere. A vedere, capire o sentire quello che fa male, disturba, spiazza. Tanto più con “Works”, opera monumentale che lo scrittore vicentino, suicidatosi un mese fa, pubblicò nel 2016, dall'8 febbraio riproposto da Einaudi in edizione ampliata, con un nuovo capitolo, “Dove tutto ebbe inizio”, che in un certo senso rappresenta un ulteriore bilancio esistenziale dell’autore di Sandrigo, ormai scrittore “riconosciuto”, ma non per questo di “successo”.

LO SGUARDO

“Dove tutto ebbe inizio”, seguito da un “amletico” sottotitolo “Works-non-works”, amplia ma nello stesso tempo concentra in guizzi feroci la riflessione alla base di “Works”, monologo corrosivo di quasi 700 pagine che scarnifica e fa a brandelli il mito del lavoro nell’”operoso Nordest”, forse la migliore eredità letteraria del narratore, sceneggiatore, attore (dal celebre “Primo amore” di Garrone al più recente “Effetto domino” di Rossetto), regista e drammaturgo (ha raccontato Craxi nella pièce “Una notte in Tunisia” e l’architetto Scarpa in “Il delirio del particolare”). In queste pagine Trevisan continua a scavare con spietata lucidità nell’assurdità del mondo, e lo fa con la sua lingua precisa e tagliente, col suo ritmo percussivo, serrato, implacabile, quasi ipnotico: c’è il rapporto con la madre «intrappolata» in una vita non scelta, quello col territorio «di cui ho vissuto le trasformazioni e ormai irriconoscibile», e poi i «vuoti a perdere che punteggiano i centri della periferia diffusa», il paese natale visto come «un immenso canile lasciato a se stesso», la pressione dell’urbanizzazione che si avverte «altrettanto fisicamente di quella atmosferica. L’erosione è costante e inesorabile». E poi il senso di precarietà che uccide il sonno e toglie il respiro, il fastidio per quest’epoca «in cui tutto si trasforma inesorabilmente in merce», la distanza tra vita e letteratura, la scrittura. Il suicidio. Che non è una novità nel suoi romanzi, così come la morte: qui però Vitaliano sembra divertirsi a spiazzare il lettore, «noi possiamo scegliere di imboccare detta via d’uscita, a patto che essa soddisfi il nostro senso estetico, giunti a questo punto dobbiamo dirci che, nell’età più giusta, nessun apice è stato toccato», e quindi suicidarsi «a 50 anni e passa anni ha un che di ridicolo». Resta, tuttavia, quel suo sentirsi «impreparato per i cinquanta. Impreparato anche per i quaranta. Impreparato sempre a dire la verità, ma un tempo, l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita, mi rendeva l’esistenza più tollerabile. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio».

 

L’ANGOSCIA

Troppe gabbie per lui. Una sorta di “marchio”, questo, sin dall’adolescenza, quando sognava «la bicicletta da maschio» e il padre poliziotto lo portò a «guadagnarsi la pagnotta» in una fabbrica di gabbie per uccelli. La prima delle tantissime fabbriche che Vitaliano frequentò in un quarto di secolo di esistenza, «da lavoratore dipendente», prima di dedicarsi alla scrittura. Ma anche la scrittura è un lavoro, sia pure poco riconosciuto persino dagli addetti ai lavori: «Nessuno si sognerebbe mai di chiedere a un idraulico di riparare un rubinetto gratis... - puntualizza - ma chiunque si sente di chiedere a uno scrittore un pezzo, una lettura, un intervento o comunque in definitiva di impegnare in qualche mondo il suo tempo prezioso come e quanto quello di chiunque altro, a-gratis». Eppure, è proprio il lavoro, quello che poi permette di non «preoccuparsi» per sopravvivere, che continua ad angosciarlo. A scavare buchi, a incrinare equilibri precari. Lui lo sa, lo sente vibrare nella sua scrittura, come se si stesse riflettendo in uno specchio che sta andando in frantumi: «Non riesco a scrivere perché il cervello è contratto, non respira, e il pensiero, quando c’è, finisce immancabilmente in strade senza uscita, mi sento soffocare, l’angoscia aumenta e così mi metto a far di conto: quanto potrò resistere con il poco che ho messo da parte? e, una volta finite le riserve, quando non sarò più in grado di pagare le bollette, quanto resisterò in casa dopo che mi avranno tagliato luce, acqua e gas? E come mi guadagnerò da vivere?». Il sogno, forse, è potersi addormentare e «non svegliarmi più, un pensiero così antico che non ricordo nemmeno più quando lo pensai la prima volta».

 

 

IL PAESAGGIO

“Works” resta comunque un lucidissimo, e anche molto ironico strumento di analisi sociale, economica e psicologica, oltre che preciso sguardo sul territorio. «Tutto è spaventosamente in ordine, pulito, magari orribile, come la peggiore parte di tutto ciò che di nuovo è stato costruito, ma pulito e in ordine. E vuoto, di giorno e di notte». E questo Veneto che il “lavoro” lo ha nel dna, per lui, è una gabbia che produce «estraniamento, isolamento, controllo, ubbidienza, centralità del lavoro inteso come lavoro dipendente, ubiqua presenza del nome e della figura del padrone, tutti “valori” che, attraverso le strutture urbanistiche che a essi direttamente si informano, finiscono inevitabilmente per influenzare e strutturare psichicamente anche gli individui che le abitano. Chi scrive non fa eccezione». Niente vie d’uscita. Meglio, forse, affidarsi all’imprevedibilità del “caso”, che «lavora benissimo» - come osserva nelle ultime righe di "Dove tutto ebbe inizio" - lasciando scritte d’amore sul muro di cinta della fabbrica abbandonata. Una piccola resistenza, forse, all’ineluttabilità di vite già segnate. 

Ultimo aggiornamento: 13:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA