Chiara Pavan
CHIARA LETTERA di
Chiara Pavan

Sulle Dolomiti con Luca Campigotto
"Teatri di guerra" tra bellezza e orrore

Martedì 28 Febbraio 2023 di Chiara Pavan
Le fotografie di Luca Campigotto alla mostra di Cortina

Tra quei sentieri di montagna ha cercato per mesi tracce di storia. Sulle vette del Pasubio, dell’Ortigara, del Grappa e del Carso, tra il Sass de Stria, il Massiccio del Lagazuoi, il Passo Paradiso e la Marmolada. E nello splendore selvaggio delle rocce grige che all’improvviso si incendiano di rosso, rosa e arancione, ha fotografato le tracce fisiche della Grande Guerra che la natura, malgrado lo scorrere del tempo, non è riuscita a cancellare del tutto. Trincee, cumuli di filo spinato, chiodi, proiettili, lattine arrugginite di cibo, pezzi di granate, fibbie, cinturoni, bombe inesplose, persino suole di scarponi. Lassù, in luoghi apparentemente inaccessibili dove moltitudini di soldati hanno scavato chilometri di grotte e gallerie, costruito labirinti di trincee issando infiniti reticolati di filo spinato, Luca Campigotto ha trovato i suoi “Teatri di guerra”, uno scenario eroico di potente bellezza fatto di silenzi. Il celebre fotografo veneziano si misura con il primo conflitto, con le montagne scalate, scavate e ferite da giovani soldati, per lo più ragazzini, che per tre anni «si sono inseguiti e sparati in un gigantesco e crudele nascondino tra rocce e strapiombi». Un viaggio nella memoria, emozionante e coinvolgente che Campigotto presenta ora a Cortina, alla Galleria Farsettiarte,  (dal 25 febbraio al 30 aprile), che ospita una selezione di 18 grandi immagini di “Teatri di guerra - Theatres of war”, tratte dal progetto che la Presidenza del Consiglio dei Ministri commissionò al fotografo nel 2013 per commemorare il centenario della Grande Guerra, e da cui furono tratti un catalogo e una mostra a Roma, alla Gipsoteca del Vittoriano.

IL PERCORSO

«Come fotografo ho dovuto confrontarmi con l’incalzare delle suggestioni e le insidie retoriche dei viaggi nella memoria» avverte Campigotto. Di qui la decisione di mettersi in moto, in perfetta solitudine, camminando per due mesi, ad agosto e settembre, muovendosi ogni giorno in un museo a cielo aperto: «Capisci che devi affrontare questa cosa in modo rispettoso, viene istintivo: ne avverti la sacralità, e nello stesso tempo senti la piccola avventura di girare da solo tra montagne. Ma è quella la dimensione adatta: la montagna richiede quel tipo di solitudine per immedesimarsi». Eccolo allora dietro i Lagazuoi, dentro una grotta in cui scopre «una sorta di stanza, doveva essere il rifugio di un ufficiale austriaco: era quasi tutto integro, c’era il rivestimento in legno, persino la carta da parati che penzolava». E poi sulla Marmolada, davanti ad una porta di ferro bucata che sembra aprirsi sull’abisso, immortalata poi sulla copertina del libro “Teatri di guerra” (Silvana ed): «Dietro quella porta c’è di tutto: entri nei tunnel, ti sembra di stare in un set degli Signore degli Anelli. Ho visto una stanza con letti a castello di legno, per ospitare 20 o 30 soldati, e poi una scala a chiocciola scavata nella roccia. Una scaletta sulla quale austriaci e italiani sono riusciti a combattersi». Oltre quella porta forata, una parete di roccia verticale «che gli italiani hanno scalato di notte, con pelli avvolte attorno alle scarpe per non far rumore».

L’ORRORE

«Mi ha colpito un’iscrizione rinvenuta sulle montagne della Carnia, “negli anni più belli, i giorni più tristi”». Quel conflitto tra le montagne è un’esperienza al limite che in alta quota spesso diventa una sfida sportiva, con interi reparti composti di scalatori provetti che azzardano ascensioni da vertigine per conquistare anche un solo sperone di roccia. «Un autentico teatro di combattimento, dove in molti punti i rispettivi avamposti erano talmente vicini da poter udire le voci che venivano dalla trincea nemica - aggiunge Campigotto - Disperatamente vicini, talvolta, anche per rendere impossibile qualunque bombardamento, dato il rischio troppo alto di colpire per sbaglio i propri soldati insieme al nemico. Una guerra sotto la costante minaccia dei cecchini, del gelo sulle vette e della sete. Dove si va spesso all’assalto storditi di grappa perché il peso del terrore è insostenibile. Dove si emerge dalla trincea senza capire più niente, tali sono le urla, i rumori, i fumi che avvolgono i soldati». Come sul Col di Lana, dove capita che a forza di esplosioni da una parte e dall’altra, le rocce ritornino nello stesso punto da dove sono venute. A volte ci sono i soldati che scavano gallerie sentendo il nemico che scava la propria, lo sente sopra e anche sotto, e allora si capisce che è meglio andarsene, magari aprendo un ennesimo tunnel di fuga in un labirinto di pietra pronto a crollarti addosso. Campigotto ha letto, si è documentato, ha visitato i tanti musei locali, con i loro cimeli, le armi, i ricordi, le foto, le lettere e i diari, ha “sentito” le voci dei soldati spaventati dal fragore delle rocce che smottano, delle esplosioni, dei nemici che saltano per aria e «piovono come manichini nel bagliore dell’esplosione». Sull’Adamello un soldato dorme nascosto in un buco troppo piccolo, scrive ai suoi di doversi “alternare” più volte con i piedi e con la testa durante la notte: «per non congelarmi ogni tanto mi giro».

LA BELLEZZA

Un viaggio nella storia adatto alle corde di Campigotto, da sempre appassionato di Storia e di paesaggi selvaggi, come rivelano i suoi lavori più recenti (“My wild places”, “American Elegy”, “Gotham City”). «Per settimane ho camminato in montagna con in mente il finale d’una lettera mandata da un soldato al fronte alla fidanzata: “scrivimi tanto, scrivimi ancora”. Mentre salivo, scalavo e incespicavo la solitudine di quel soldato mi teneva compagnia e pareva rinnovarmi le energie. Certo, il mio zaino con la macchina fotografica è ben più leggero di quelli da circa 35 chili che si usavano allora, e anche se il cavalletto che tenevo nella mano destra a volte pareva dondolare come un moschetto, nessuno mi avrebbe sparato. Comunque, pensavo, “scrivimi ancora” – che le tue parole d’amore mi allevino la paura e la fatica». E pare di vederlo, questo esercito di soldati che si fa strada lungo la salita circondato da un ambiente naturale meraviglioso, da una bellezza unica, spietata e stupefacente, sotto metri di neve o nell’incanto dei prati verdi in estate. «È incredibile pensare che la gente possa ammazzarsi in posti così belli. Ci sono molte lettere private di soldati che parlano della bellezza del paesaggio in maniera consolatoria, “almeno facciamo guerra in posti bellissimi”, sono loro i primi a stupirsi della meraviglia che li circonda». Per dare corpo a questa bellezza e nello stesso evocare il dolore della tragedia, Campigotto opta per uno sguardo personalissimo che fa vibrare l’immagine di emozioni. «Il mio sistema è sempre uguale, è un procedere lento, col cavalletto, la macchina grande, l’alta definizione. E poi le foto: quando le ho lavorate e desaturate, le ho rese grige, fredde, verdastre. Mi sembrava più adatto al tema, come la fotografia dei primordi». Sono verse emozioni ambientali, fatte di luce, di colore, di angolazioni, di prospettive, di sorpresa, di vertigini, salti visivi sul vuoto che ricordano la lotta per la sopravvivenza che non ha conosciuto riposo. Immagini di una guerra che non va dimenticata, tanto più adesso. 

Ultimo aggiornamento: 05:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA