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Intanto è un rientro, non un ritorno. Nelle parole c’è già tutto, basta adoperarle o leggerle con attenzione. Certo: “il ritorno” è un termine più pregno di carica emotiva. Uno sparisce o si dedica ad altro e poi, quasi d’improvviso o annunciato da qualche boatos, torna sul palcoscenico che è stato suo. In ambito tennistico quello di Bjorn Borg, dopo il ritiro, fu un ritorno. Nella boxe quelli di Foreman o Clay, pur con esiti differenti, furono ritorni. Quello di Roger Federer, che avverrà dopodomani contro Chardy o Evans, non sarà un ritorno ma un rientro. Perché Roger non se n’è mai andato.
COME LAUDA
La sensazione è che abbia approfittato della pandemia non solo per ripulire il ginocchio destro da schegge varie di menischi ormai dissolti, ma anche per abituare i fedeli della chiesa di cui è messia alla sua assenza.
L’ULTIMA SCALATA
Roger è stato sempre garanzia di epicità oltre che di spettacolo e di miracoli balistici: quella epicità, ripensando a quanto si è visto dalla ripresa dell’anno scorso fino all’Australian Open, ora è venuta meno. Nadal fa a sua volta i conti con le ginocchia che emettono rumori sinistri; Djokovic con i limiti con cui si esprimono il suo tennis e il suo personaggio. I boys fanno ciò che possono (ieri a Rotterdam Rublev ha vinto il quarto titolo 500, per dire). Come dobbiamo dunque leggere il rientro di Roger? Come la scelta di non uscire di scena in modo anonimo: di tentare forse per l’ultima volta la scalata a Wimbledon; di preparare i fedeli a quello che sarà il suo nuovo ruolo di presenza immanente. Intanto, grazie alle modifiche decise da Atp al regolamento-punti è praticamente sicuro di restare fra i top 20 anche se giocasse poco o niente da qui a fine anno. Vorrà, il buon Roger, percorrere una progressiva e studiata uscita di scena che non susciti in nessuno troppa malinconia e che induca tutti a guardare verso l’alto: aspettando la colomba che scenderà dall’empireo e si poserà sul capo di colui che sarà il suo erede. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino