Atleta abusata dagli allenatori si suicida, l'ultimo sms alla mamma: «Fai sapere cosa hanno fatto»

Atleta abusata dagli allenatori si suicida, l'ultimo sms alla mamma: «Fai sapere cosa hanno fatto»
Un messaggio a un compagno di squadra per chiedergli di occuparsi del cane. Poi, un sms alla madre: «Mamma, ti voglio bene. Fai sapere al mondo i crimini che hanno...

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Un messaggio a un compagno di squadra per chiedergli di occuparsi del cane. Poi, un sms alla madre: «Mamma, ti voglio bene. Fai sapere al mondo i crimini che hanno commesso». Sono state queste le ultime parole di Choi Suk-hyeon, 22 anni, atleta coreana di triathlon, che si è tolta la vita poco dopo mezzanotte il 26 giugno, dopo anni di sofferenza e abusi. La madre, spaventata, ha provato a chiamarla, le ha scritto, l’ha pregata di rispondere, ma era troppo tardi. A rendere noto il dramma è stato il New York Times. Choi era entrata nella nazionale nel 2015, adolescente.




L’INCUBO
Quello che sembrava un sogno divenuto realtà si è presto rivelato un incubo. Secondo quanto l’atleta ha raccontato nei mesi precedenti alla morte, appena le è stato concesso di lasciare il team giovanile per prepararsi da “adulta”, sono iniziati gli atti di bullismo, poi le violenze. Dopo il suicidio della giovane, la famiglia ha deciso di rivelare tutto, riportando le accuse della ragazza che indicava come responsabili il coach, il dottore della squadra e due compagni, e portando come prova pagine del suo diario dove scriveva di «piangere ogni giorno», che «avrebbe preferito morire» e che veniva «picchiata come un cane».

Di alcune aggressioni ci sono le registrazioni - citate pure dalla Bbc - fatte segretamente dalla vittima per provare gli abusi fisici e psicologici. In una di queste, si sente uno dei suoi aguzzini colpirla violentemente più volte. Dopo la sua morte, ex compagni di squadra hanno denunciato di aver subito abusi, ammettendo di non aver parlato per paura. Choi Suk-hyeon, invece, si era rivolta alla National Human Rights Commission, alla Korea Triathlon Federation, al Korean Sport and Olympic Committee e alla polizia di Gyeongju City, sede della squadra. Aveva raccontato ogni sopruso. Aveva detto che il medico l’aveva schiaffeggiata, penetrata, presa a pugni e a calci anche più di venti volte al giorno e che le aveva fratturato una costola. Secondo i genitori, a gettare la ragazza nella disperazione, sarebbe stata propria la reazione delle autorità, che non avrebbero aperto alcuna indagine e, in alcuni casi, le avrebbero fatto capire che quelle violenze erano “normali” in allenamento.


Le autorità respingono le accuse. La Korea Triathlon Federation, lunedì, ha bandito a vita allenatore e capitano del team. E sono stati annunciati provvedimenti penali. Il suicidio ha alimentato il dibattito sulle violenze alle atlete. A molte subire pare inevitabile. Denunciare fa paura. Choi aveva avuto il coraggio di farlo, ma, inascoltata, credendosi condannata ad essere per sempre vittima di quelle violenze, ha scelto la morte per porre fine al suo dramma. Ha chiesto, però, alla madre di combattere per altre ragazze come lei. 
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Il Gazzettino