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Eugenio Scalfari ovvero l’uomo che ha creato un giornale partito, e questo mix tra politica e informazione non sempre ha preso le scelte giuste e fatto le campagne più adatte a fare del bene al Paese. Dividendolo in maniera netta, noi di qua, voi di là, quando invece un Paese diviso avrebbe avuto e ha bisogno di conciliarsi, di incontrarsi, di mescolarsi. Fuori e oltre gli steccati. Quando invece lo scalfarismo è stato una linea di separazione. Scalfari, con le sue intuizioni editoriali e con la forza e i limiti di un giornalismo militante, è stato il simbolo del complesso dei migliori. C’è l’Italia sapiente, elegante, libertina, progressista e di sinistra, quella che merita di guidare la politica pur non facendo politica e in cima alla quale si era auto-insediato “L’uomo che non credeva in Dio” (titolo di libro scalfariano) e dall’altra parte c’è l’”Italia alle vongole”. Quella arci-italiana, tendenzialmente impresentabile, dedita a tutti i vizi atavici di una storia plurimillenaria che Scalfari - il giornalista scomparso a 98 anni, fondatore di Repubblica e Papa laico, ma ultimamente bergogliano, della sinistra per mezzo secolo - ha sempre creduto di poter giudicare e ha sempre condannato dall’alto di una cattedra morale. Scalfari aveva una idea di sé perfettamente sintetizzata nella descrizione che ne ha fatto il suo amico Carlo Caracciolo, l’editore con cui ha condiviso tutto compreso il successo di un’impresa giornalistica in concorrenza con le altre non meno importanti e innovative della loro: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione».
Eugenio Scalfari è morto, il fondatore di Repubblica aveva 98 anni
A dispetto dell’infatuazione spirituale e filosofica degli ultimi decenni, che ha prodotto volumi su Eros, su Nietzsche, su Pascal, su Montaigne, su “La ruga sulla fronte” e su altre profondissime altitudini, egli è stato uomo da battaglia. Convinto che la ragione, che per lui era sempre maiuscola, La Ragione, fosse esclusivamente nel luogo dove si trovava lui. Ed ha agito - dai tempi in cui fondò L’Espresso e poi a Repubblica dal primo numero del 14 gennaio del ‘76, e sempre in tutti i suoi le acerrimi scontri contro Craxi il Ghino di Tacco, contro Berlusconi il Mackie Messer brechtiano e in favore di quella che snobisticamente lui e gli azionisti come lui hanno chiamato “una certa idea di Italia” - come vero leader della nostra sinistra.
Ossia la consacrazione di classico ha riempito di gioia e di orgoglio il libertino. Sempre eretto con il barbone profetico sulla cattedra del proprio giornale-partito, di solito sbagliava le previsioni politiche. Come quando alla vigilia della travolgente vittoria di Berlusconi nel 2008 scrisse con sicurezza in una delle sue omelie politiche della domenica: «Contro uno così è impossibile perdere». Sempre fedele alla filosofia dell’editore puro, quando vendette per una cifra mai accertata ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire la sua quota di Repubblica a Carlo De Benedetti, lo stuolo di scalfariani ci restò malissimo. La redazione in assemblea accolse il discorso del direttore-editore sulla vendita con un silenzio assoluto e Scalfari alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi chiese sottovoce al suo vice Gianni Rocca: «Come mai non applaudono?». Dunque Scalfari è stato un protagonista importante delle vicende italiane del ‘900 e oltre. Ma la presunzione di far parte e di rappresentare i migliori non ha giovato completamente alla sua biografia e alla sua opera.
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