Una carezza e un bacio alla bara, il coraggio

Una carezza e un bacio alla bara, il coraggio
Una carezza, il gesto più dolce e naturale, quello di tutte le mamme e i papà. Un tocco leggero alla bara, prima che il portellone del carro funebre si chiuda sul loro Giulio,...

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Una carezza, il gesto più dolce e naturale, quello di tutte le mamme e i papà. Un tocco leggero alla bara, prima che il portellone del carro funebre si chiuda sul loro Giulio, prima di rivederlo, chissà, forse dopo l'autopsia. Una carezza più lieve, il tempo di appoggiare la sua mano sul feretro sfugge anche al ministro Orlando, gesti veloci, intimi, come ha sempre chiesto e mostrato la famiglia Regeni. E' una giornata di sole che stride con questa tragedia. Con il dolore che suscita l'arrivo del corpo senza vita del giovane dottorando friulano torturato e ucciso a Il Cairo. E poi «ma che gusto c'è a fotografare una bara?», balena per un attimo nella testa di un giornalista, che pure ha passato ore ed ore d'attesa dietro le transenne di Fiumicino. Il corpo del ragazzo è appena tornato in Italia, a Roma, non ancora nella sua Fiumicello, ad accompagnarlo i suoi genitori.

Addolorati ma lucidi, come chi va in cerca della verità, la pretende. Come chi ora non può crollare, chi ha ucciso il figlio e un po' anche loro, non deve restare impunito. Il ministro della Giustizia si intrattiene con loro un'ora, all'interno dell'aeroporto di Fiumicino. Promette giustizia «assicura la volontà del Governo che sia fatta piena chiarezza» al più presto. Quando compaiono all'uscita del Cerimoniale di Stato, hanno gli occhi cerchiati di chi piange quando è solo, ma davanti al clamore delle telecamere di Roma si fanno coraggio, lui spesso le posa un braccio sulla spalla, le cinge il gomito, dignitosi e sofferenti, mamma Paola dà solo un ultimo bacio alla bara e si volta, papà Claudio un cenno di saluto schivo, forse imbarazzato. Qualcuno si fa il segno della Croce. A pochi metri di distanza al Terminal T3, vanno e vengono ignari viaggiatori in partenza, abbracci e saluti di altro tenore.

Intanto però Giulio è in quella bara, quel figlio volitivo, colto e bello, che studiava a Cambridge, si appassionava a tutto, amava l'Egitto, in realtà amava tutto. E ancora, proprio come due genitori, Claudio Regeni, rappresentante di commercio e Paola Deffendi, maestra d'asilo in pensione, non lo perdono d'occhio, lo scortano a bordo di un Suv nero fin dentro la Camera ardente dell'Università la Sapienza, lasciano i loro recapiti ai medici incaricati dell'autopsia, si assicurano che al termine vengano avvisati per primi, vanno in Procura, nominano due consulenti medico legali. E' l'ora della burocrazia. Non lasciano spazio all'emozione, decisi a sapere, capire, perché Giulio, all'estero per una tesina, come tanti giovani studiosi italiani, sia morto, di chi aveva paura, perché dava fastidio. Ci vuole tempo, prima la tac, poi l'autopsia, la seconda, lunga e accurata, della famiglia si prende carico il ministero della Giustizia. Nel pomeriggio a Il Cairo si svolge un sit-in: a centinaia si radunano davanti all'Ambasciata italiana, gridano “Giulio era uno di noi”. Più o meno alla stessa ora, anche a Roma, di fronte all'ambasciata egiziana, c'è un'altra manifestazione in ricordo di Regeni, viene affisso un cartello “piazza Giulio Regeni” all'ingresso di villa Ada e uno con scritto “piazza dei desaparecidos” viene piantato in terra, sul prato verde. Anche il mondo accademico britannico, che Giulio frequentava a Cambridge, si mobilita e chiede giustizia. Il mondo improvvisamente sembra piccolo, soprattutto c'è una generazione di studiosi che fa sentire la sua voce.
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Il Gazzettino