Ricatti mafiosi «Così truffarono mio fratello»

Ricatti mafiosi «Così truffarono mio fratello»
IL PROCESSOPORDENONE Nella valigetta - sparita insieme al fantomatico console croato che prometteva interessi del 10% a chiunque gli cambiasse ingenti somme in pezzi da piccolo...

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IL PROCESSO
PORDENONE Nella valigetta - sparita insieme al fantomatico console croato che prometteva interessi del 10% a chiunque gli cambiasse ingenti somme in pezzi da piccolo taglio con banconote da 500 euro - c'era un lascito. I 500mila euro sottratti all'imprenditore Raimondo Lucchese erano stati accantonati dal padre e lasciati per l'impresa. A confermarlo è stata non solo Annarita Lucchese, sorella dell'imprenditore, ma anche un commercialista che era stato contattato dal legale di Lucchese. È emerso durante il processo sui ricatti mafiosi ai danni dei due assicuratori pordenonesi Walter e Luca Scolaro. A difendersi dalle accuse di tentata estorsione e incendio doloso - dopo che tre calabresi sono stati condannati in preliminare a pene tra i 4 e 6 anni - sono rimasti il sacilese Raimondo Lucchese; il siciliano Vincenzo Centineo domiciliato a Salgareda; Mario Tironi, accusato del furto dei soldi, nato in Macedonia, residente a Bergamo e conosciuto anche come Ratko Dragutinovic; infine, il siciliano Emanuele Merenda (39) e il calabrese Pietro Ferraro (34) di Marcon.

Sul giorno dello scambio delle valigette ha parlato la sorella di Lucchese. Il fratello arrivò in ufficio con una valigia; «Ho i soldi di papà, voglio cambiarli». Lei gli chiese se era sicuro: «E se ti danno in cambio soldi rubati?». Lui la rassicurò, disse che Tironi era un diplomatico, ci si poteva fidare. La sorella non era presenta al momento dello scambio. Ha confermato che in ufficio c'era la macchinetta contasoldi data in prestito della banca, che nella valigia c'erano pezzi da 500 euro e che gli Scolaro continuavano a contattare Tironi perchè tardava ad arrivare. Quando chiese al fratello com'era andata, lui si limitò a riferire che «non si è fatto niente, poi l'hanno messo in prigione».
Lucchese era un cliente importante degli Scolaro: azienda, operai e mezzi erano assicuratori con i broker pordenonesi. Dopo il raggiro, l'imprenditore si rivolse al suo legale. Intendeva denunciare gli Scolaro ritenendoli coinvolti nel raggiro, ma voleva sapere se poteva avere problemi fiscali per via dei 500mila euro che gli aveva lasciato il padre. La circostanza è stata confermata dal commercialista Gianluigi Brun, che fu contattato per un consiglio a fine dicembre 2012. In quel periodo, però, i ricatti mafiosi nei confronti degli Scolaro erano già cominciati. A confermalo è stata Jenny D'Andrea, moglie di Luca Scolaro. La testimone ha raccontato che dopo le minacce ricevute dai calabresi, che si spacciavano per emissari di un clan mafioso, la famiglia viveva nel terrore e sotto scorta. Ricordando quei momenti - e le fiamme appiccate alla sua abitazione il 29 dicembre 2012 - si è messa anche a piangere. Anche lei era presente la sera in cui il marito, in un locale pubblico, parlò dell'affare appena concluso con un console croato: una provvigione di 3mila euro per avergli cambiato 30mila euro con banconote da 500. Lucchese si incuriosì: «Voglio conoscerlo anch'io». Ed ecco spuntare l'affare dei 500mila euro con tutto ciò che poi ne è conseguito.

Il processo riprende il 24 ottobre per concludere l'audizione dei testimoni della parte civile ed esaminare Lucchese, Centineo e Ferraro.
C.A.
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Il Gazzettino