Questa Selezione del Campiello - l'ultima da presidente degli industriali di Roberto Zuccato, che nel suo saluto si è commosso - sarà ricordata più che per i libri, dei quali...
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Ma al di là dell'esito della votazione è stato chiaro fin dall'inizio della selezione (per la prima volta con una conduttrice esterna, la giornalista Rai Maria Pia Zorzi) che il clima fra i giurati non doveva essere dei migliori; ha cominciato Ermanno Paccagnini lamentandosi delle pressioni di cui è stato fatto oggetto nelle ultime settimane in favore di alcuni "candidati": «Non siamo mica allo Strega, siamo al Campiello», è sbottato, applaudito. La tensione però è aumentata quando hanno preso la parola le due new entry, Roberto Vecchioni e Stefano Zecchi: il cantautore - che pure vanta una lunga carriera di insegnante, una produzione letteraria di tutto rispetto e (per quello che vale) una duratura militanza nell'intellighentia progressista - ha fatto un'uscita da demagogo (chissà se voleva essere ironico?) confessando di aver scartato a priori, fra i 230 libri arrivati alla selezione, «quelli lunghi oltre le 300 pagine, quelli biografici, quelli storici, quelli sui disastri umanitari eccetera eccetera. Ne sono rimasti 15 - ha concluso - e fra questi sceglierò i miei 5, tenendo presente che il Campiello non è nè il Nobel nè il Pulitzer, ma è rivolto a chi i libri li legge».
A quel punto ha preso la parola Zecchi, dicendo che invece lui i libri li aveva letti tutti, «per rispetto degli autori», ma proseguendo con una tirata contro «una giuria costituita da membri eterni e inossidabili» francamente poco giustificata per un premio che di giurati ne cambia almeno un paio all'anno (e il presidente tutti gli anni). Philippe Daverio e Riccardo Calimani - i due giurati di più antica nomina - non devono aver gradito... E proprio lo storico veneziano durante le votazioni finali ha dato filo da torcere ai colleghi, insistendo sul padovano Righetto e rifiutando di convergere sui nomi più votati, fino ad astenersi nel ballottaggio.
Quanto ai libri, il Premio Opera Prima va a "La teologia del cinghiale" (Elliot edizioni) di Gesuino Nemus, pseudonimo dell'imprenditore sardo Matteo Locci. I romanzi della Rasy e della Vinci hanno punti di contatto nelle due protagoniste, volontarie negli ospedali di guerra (la prima) e nei manicomi (la seconda) e alle prese con amori femminili; Doninelli racconta invece un futuro apocalittico, Bertante il dopoguerra jugoslavo e Tarabbia la storia del cannibale russo Abdrej Cikatilo. Buon divertimento ai lettori...
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Il Gazzettino