L'amianto continua a colpire, a distanza di 50 anni. E per l'Autorità Portuale una nuova sentenza che la condanna a risarcire i familiari delle vittime. Emerge in questi giorni...
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L'uomo, che viveva a Favaro e lavorava alla Compagnia lavoratori portuali, è morto nel 2005, a 59 anni, a due mesi (trascorsi in ospedale) dalla diagnosi della malattia. Aveva iniziato la sua attività al porto a 18 anni, e sulla correlazione tra il lavoro e la malattia che l'ha colpito la sentenza parla chiaro: «Nell'esercizio delle proprie mansioni di carico e scarico navi e di facchinaggio spiega l'avvocato Giorgio Caldera - è stato continuativamente esposto in prima persona all'azione dell'amianto, senza che venissero adottate precauzioni e forniti dispositivi di protezione che potessero evitarne l'inalazione. Non sono state inoltre fornite istruzioni sulla pericolosità della sostanza né adottati sistemi idonei per impedire o ridurre la diffusione delle polveri d'amianto negli ambienti».
La Corte d'Appello, sciogliendo il nodo delle competenze, ha riconosciuto nell'allora Provveditorato al Porto il ruolo di effettivo datore di lavoro, confermando quindi la sentenza di primo grado. «La Corte d'appello aggiunge Caldera ha definitivamente chiarito che il risarcimento dei danni compete all'Autorità Portuale definendo irrilevante il fatto che, a seguito dell'entrata in vigore della legge 84/1994 sul riordino della legislazione in materia portuale, le attività imprenditoriali siano state trasferite a società commerciali».
La storia è quella di tanti lavoratori del porto di Venezia negli anni Sessanta e Settanta: testimonianze, in passato, raccontavano di amianto che veniva scaricato dalle navi in sacchi di juta e container che spesso si rompevano o di lavoratori che pranzavano seduti sulle casse piene di fibre di amianto. Numerosi i risarcimenti ai familiari delle vittime imposti all'Autorità Portuale. Un caso raro, qualche mese fa, quello da oltre un milione di euro, assegnato per la prima volta a una persona ancora in vita.
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Il Gazzettino