La mattina in cui siamo entrati nella sezione trapianti abbiamo capito cosa voleva

La mattina in cui siamo entrati nella sezione trapianti abbiamo capito cosa voleva
La mattina in cui siamo entrati nella sezione trapianti abbiamo capito cosa voleva dire isolamento. Il trapianto di midollo era ormai l'unica strada percorribile per salvare la...

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La mattina in cui siamo entrati nella sezione trapianti abbiamo capito cosa voleva dire isolamento. Il trapianto di midollo era ormai l'unica strada percorribile per salvare la vita a nostro figlio, dopo un anno di corse al pronto soccorso e ricoveri lunghissimi. Isolamento voleva dire che noi genitori avremmo dovuto rimanere a turno con nostro figlio, dopo esserci lavati nella zona filtro, aver cambiato i nostri abiti con la divisa genitori, aver indossato mascherina e cuffia. L'aplasia midollare, di cui nostro figlio soffriva da un anno, lascia il paziente completamente indifeso contro qualsiasi battere o virus o spora fungina: il midollo osseo semplicemente si blocca e costringe a vivere sotto costante regime trasfusionale e a temere qualsiasi microorganismo patogeno circoli nell'aria.

Sostituire il suo midollo osseo era l'unica chance. Una giovane ragazza ha donato il proprio per guarire un bambino senza sapere niente di lui: così, mentre tutti i suoi compagni di classe festeggiavano la fine della quinta elementare, e i nostri amici facevano programmi per le imminenti vacanze estive, noi ci siamo chiusi dentro una scatola di pochi metri quadrati, con una finestra affacciata su un altro palazzo dell'ospedale, mentre la vita scorreva fuori.
Sono stati mesi duri, però ci siamo riusciti e la guarigione di nostro figlio ci ha ripagati degli immani sacrifici sostenuti, della stanchezza che solo chi ha trascorso notti col termometro e il catino in mano massaggiando gambe e pance sofferenti, accompagnato dal rumore costante delle pompe, capisce. Ha alleviato il dolore nel vedere tante giovani teste senza capelli girare per i corridoi spingendo la propria flebo; o scoprire l'indomani che una di loro ci aveva lasciati nel silenzio della notte. Ha reso giustizia alle battaglie sostenute e vinte per non perdere i contatti con i compagni di classe e gli insegnanti, perché oggi è diventata una necessità per tutti, ma fino a qualche settimana fa lo era solo per quelli cui capita una disavventura del genere.
Dietro le porte di quel reparto non c'è passato solo nostro figlio. Nelle oncoematologie pediatriche d'Italia ci sono centinaia di bambini e ragazzi, e dietro i loro genitori. Ci sono amici e parenti che provano a sostenere almeno una piccolissima parte di quel peso, senza sapere che parole usare per esprimere la loro vicinanza. E nonni, che sono disperati da così tanta assenza dei nipotini, che ripetono: «Potessi esserci io al posto suo, che tanto ormai sono vecchio». Come se fosse normale dare un valore alla vita a seconda dell'età o dello stato di salute di una persona.
Sento dire oggi che muoiono solo gli anziani o chi ha patologie pregresse, come se un anziano o un malato contassero di meno. Ecco, è questo che dovrebbe farci riflettere oggi. Per quanto alienante sia rimanere rinchiusi ed avere la sensazione di non potersi muovere, che ci sia qualcosa che ci sta obbligando a cambiare la nostra routine, in questo momento non abbiamo scelta. Nemmeno noi, che dopo tutto questo tempo avremmo desiderato tanto fare un bel viaggio, vedere nostro figlio tornare trionfante a scuola dopo due anni o semplicemente uscire a mangiare una pizza con gli amici senza mascherina e berretto.

Stiamo continuando a fare sacrifici perché lui è ancora immunodepresso, ma soprattutto perché sappiamo benissimo che c'è un fine ultimo molto importante che abbraccia tutti. E se a noi è rimasta ancora un po' di pazienza, vi assicuro che la riserva è veramente illimitata per tutti.
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Il Gazzettino