L'INTERVISTA MONSELICE Guanti, mascherine, ventilatori meccanici e altri macchinari

L'INTERVISTA MONSELICE Guanti, mascherine, ventilatori meccanici e altri macchinari
L'INTERVISTAMONSELICE Guanti, mascherine, ventilatori meccanici e altri macchinari per la respirazione. Ma non solo. In piena emergenza al reparto di Terapia intensiva...

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L'INTERVISTA
MONSELICE Guanti, mascherine, ventilatori meccanici e altri macchinari per la respirazione. Ma non solo. In piena emergenza al reparto di Terapia intensiva dell'ospedale di Schiavonia, diventato in fretta e furia Covid Hospital per reggere l'urto della pandemia, sono spuntati anche cacciaviti e martelli. Sono serviti per montare nuovi posti-letto e passare da 12 a 50. Oggi l'incubo sembra passato e l'unico paziente Covid è un settantenne già negativo al tampone. «È merito di tutti» assicura il dottor Fabio Baratto, direttore da aprile 2018, che guida un reparto di 30 anestesisti.

Che bilancio possiamo tirare?
«Abbiamo vissuto tre fasi. La prima è stata quella dello sgomento. Abbiamo dovuto affrontare il virus con tempi frenetici e non sapevamo ancora cosa ci trovavamo di fronte. Le armi per combatterlo non erano ancora note, guardavamo ai cinesi che ci erano passati prima di noi».
Ora invece le armi sono note?
«Anche adesso di stabilito non c'è nulla. Proprio ieri leggevo un articolo scientifico in cui si sosteneva che il plasma non è più efficace di altre terapie. Si sente dire tutto e il contrario di tutto. La verità è che questa epidemia la conosciamo ancora poco».
Torniamo alle tre fasi. La seconda?
«Quella in cui ci siamo assestati, dopo aver ricevuto tutta l'attrezzatura che ci ha permesso di assistere anche 31 pazienti contemporaneamente. In tutto ne abbiamo trattati 54».
La terza?
«Quella in cui abbiamo iniziato a vedere, dopo 15 o 20 giorni, che i pazienti iniziavano a rispondere alle terapie. Molti hanno iniziato a migliorare e noi abbiamo cominciato a dimetterli. Da lì in poi è stata in discesa, fino ad avere zero ricoverati positivi».
Che terapie avete sperimentato?
«Abbiamo iniziato con gli antivirali già studiati per patologie come HiV e Ebola. Poi antibiotici e antiinfiammatori specifici. Abbiamo provato davvero di tutto».
Se l'epidemia dovesse riesplodere?
«Siamo attrezzati con quattro camere a biocontenimento. Se ci saranno nuovi pazienti Covid potranno essere ricoverati assieme ai pazienti non Covid».
Se si guarda indietro, che immagini le vengono in mente?
«Quella in cui tutti, ma proprio tutti, si davano da fare per aggiungere posti-letto. Chiunque si è impegnato al massimo, c'era poco tempo e moltissimo stress».
Altri momenti che l'hanno toccata?
«Il momento indimenticabile è stato quello della prima dimissione, ad aprile. C'è stato un momento che ci chiedevamo se sarebbe guarito qualcuno. Quella prima dimissione è stata una molla, ci ha dato speranza».
Chi deve ringraziare?
«Tantissime persone. Da tutti gli infermieri, nonostante provenissero da altre specialità, ai colleghi che non si sono mai tirati indietro. Nonostante la paura di ammalarsi e di contagiare le famiglie. Tutti grandissimi professionisti pieni di impegno e voglia di combattere».
Lei ha moglie e due figli. Come ha vissuto questo periodo?

«A volte sono rimasto in ospedale senza andare a casa. Ho cercato il più possibile di evitare i contatti con loro. I miei figli si raccomandavano di coprirmi il più possibile e sono stati bravissimi. Non so se io a 18 anni sarei stato in grado di stare a casa due mesi così tranquillo. Ma loro mi dicevano che prima o poi sarebbe finita».
G.Pip.
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Il Gazzettino