Difficile la vita dell'avventuriero moderno. Un tempo il suo pane quotidiano erano animali esotici e territori ancora da scoprire. Oggi i viaggi nei luoghi più lontani del...
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Quanti Alex esistono?
«Infiniti, tanti quante sono le gocce dell'oceano. Tutti noi abbiamo l'impressione di essere un'entità sola, un solo individuo: questa è la vita, che fa emergere sempre un carattere dominante. Al contrario, io per natura trovo appassionante cacciarmi nei guai, o meglio mettermi nelle condizioni in cui il guaio non è un'ipotesi, ma una circostanza che prima o poi si verificherà. Quindi, di fronte alle situazioni di massimo disagio, quando non riesci a mangiare, oppure a dormire, il carattere dominante viene sostituito da altri caratteri. Un po' come un attore che ha a disposizione tanti cappelli e in ogni scena ne indossa uno differente. L'unica cosa che mi rende felice, è che riesco ad accettare tutti i vari Alex che ci sono dentro di me».
Ci racconta uno dei guai in cui si è cacciato?
«Una delle prime volte è stato quando ho deciso di attraversare l'Alaska con una slitta autocostruita in vetroresina. Pensavo di aver fatto una genialata: portarmi dietro una slitta in grado di diventare anche casa. Durante la prima notte mi sono immediatamente reso conto che quella poteva trasformarsi nella mia cassa da morto: la condensa si congelava sulle pareti della slitta e, di fatto, non sono riuscito a dormire per settimane».
Il suo viaggio per dieci fiumi e un oceano mostra un Alex che vive una nuova esperienza, oppure un puro ecologista?
«Tutte e due. Frequentando la natura, vedendone la parte più ostile, ma anche la più vulnerabile, ci si rende conto che dobbiamo necessariamente ritrovare un equilibrio con il nostro pianeta. Viviamo in un'epoca chiamata Antropocene dove l'essere umano e le sue attività sono i maggiori responsabili di tutti i cambiamenti climatici e strutturali. Eppure mai come oggi l'uomo è distante dalla natura».
Una sorta di grande incomprensione?
«La natura ci sta lanciando per la prima volta un grido d'aiuto, in quanto finora si era sempre autogestita. Oggi siamo noi la leva che muove il cambiamento geologico, ma non ce ne rendiamo conto. Siamo così distanti dalla natura, che per viverla siamo costretti a ricrearla artificiosamente all'interno delle nostre città o delle nostre abitazioni».
Come se mancasse una connessione?
«Sempre più spesso viviamo come se non avessimo un legame con la natura e se non la conosci non puoi prendertene cura. Non è un caso che poi ci siano esploratori, navigatori, avventurieri, che a un certo punto del loro viaggio, dicano: adesso parlo io, se non riuscite a sentire la voce della natura, io mi alzo e parlo per lei».
Il suo ultimo viaggio lungo il Gange, più che per ripulire il fiume, serve dunque a parlare con le persone?
«In realtà faccio entrambe le cose. Mi immergo nella natura, riportando gli argomenti là dove è urgente portarli, perché oggi l'ignoranza rispetto alla necessità di trovare soluzioni al problema della plastica, è il vero problema».
Ma veramente con i suoi giochetti, come li definisce, pensa di risolvere il problema della plastica?
«Provo a richiudere un circuito che si è interrotto. Cerco quantomeno di avvicinare le persone a un problema che sembra essere sempre troppo lontano, addirittura dall'altra parte del mondo».
La soluzione?
«La mia volontà è quella di restringere la distanza psicologica che esiste tra l'essere umano e le conseguenze delle sue abitudini».
Quali scopi vuole raggiungere con la collaborazione con Montblanc?
«Sono convinto che ognuno debba fare la propria parte per ritrovare la connessione con la natura. Montblanc in questo momento sta interpretando una necessità, che io avverto molto forte, di riportare l'essere umano a mescolarsi con la natura. Abbiamo così deciso di iniziare un percorso assieme, accomunato dagli stessi obiettivi e dalla medesima sensibilità».
Che orologio indossa al polso?
«Un modello in bronzo, un materiale vivo, che con il tempo si adatta alla persona, modificando il suo colore ma rimanendo sempre naturale: il Montblanc 1858 Geosphere».
Porta sempre l'orologio anche quando parte per le sue avventure?
«Sì, anche perché alla fine si trasforma sempre in un conto alla rovescia puntato sul ritorno a casa. In questo l'orologio mi è indispensabile: è il mio contatto con la realtà».
Paolo Gobbi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino