«I miei 50 anni in toga così fu preso Maniero»

«I miei 50 anni in toga così fu preso Maniero»
A fine anno andrà in pensione dopo mezzo secolo in magistratura. E il suo nome resterà per sempre legato alle indagini sulla Mala del Brenta e sul suo capo Felice Maniero....

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A fine anno andrà in pensione dopo mezzo secolo in magistratura. E il suo nome resterà per sempre legato alle indagini sulla Mala del Brenta e sul suo capo Felice Maniero. Dottor Pavone, come partì quella clamorosa inchiesta?

«Mi limitai a mettere insieme più fatti, alcuni addirittura antecedenti al 1982, tutti rimasti senza una risposta. Lo feci con caparbietà, certo che ci fosse un filo che li tenesse uniti. Sapevamo che nella zona operava Maniero, ma volli cercare un nesso e pian piano il mosaico si compose. La banda venne condannata in tutti i gradi di giudizio. Maniero ottenne 33 anni. Scappò quindici giorni prima che venisse emessa la sentenza del primo luglio 1994».
Maniero poi si decise a collaborare. Perché?
«Perché, dopo la fuga dal carcere riprese l'attività criminale: dall'evasione armata a più rapine. Sapeva che la condanna per questi ultimi reati si sarebbe andata a sommare ai 33 anni già inflitti dalla Corte d'Assise. Come dire che non sarebbe più uscito di galera. E così collaborò. Riuscimmo ad arrestare circa 500 persone».
Come ricorda Faccia d'Angelo?
«Aveva una grande intelligenza che usava in forma criminale. Ricordo che era molto attaccato alla madre. Per questo motivo veniva soprannominato Cotoa, tanto era attaccato alla gonna materna».
Lei si occupò anche dei sequestri di persona che tra il 75 e l'85 colpirono imprenditori veneti come Aurelio Pasti e Ivo Antonini. Perché quest'inchiesta ebbe poca risonanza?
«Seppi a posteriori che non si voleva far passare l'immagine di un Veneto insicuro. Eppure quell'inchiesta portò alla condanna di 80 persone, tutti giostrai».
Traffico di armi da guerra, droga, sequestri di persona, rapine, insomma un Veneto dalla grande criminalità.
«Basta cercare e si trova. Sempre. Io prendo in considerazione tutto, anche gli anonimi. Moralmente questo metodo non è accettabile, ma sotto il profilo politico, visto che viviamo in un paese corrotto, lo posso capire. C'è gente per bene che per essersi esposta nel denunciare il malaffare ha pagato con l'emarginazione».
Ma a suo avviso, oggi, si cerca a sufficienza?
«Proprio in questi giorni, sono rimasto stupito nel sentire dell'arresto di una bellunese presa a Marghera con addosso una considerevole varietà di droghe. Segno di una consistente attività di spaccio. Ebbene, qui a Belluno non era conosciuta. Addirittura non sappiamo nemmeno quanti sono gli assuntori. Manca una rete di conoscenza e manca personale. Sbagliato pensare che per pochi abitanti bastino poche forze di polizia. Dobbiamo sempre tener presente che quello che noi scopriamo è solo un centesimo di ciò che gira».
Cosa pensa del default della banche venete?
«Penso che i politici dovrebbero non intromettersi. Perché qui è chiaro che i debiti sono stati fatti da amici e compari».
Il caso Cortina con la condanna dell'ex sindaco per turbativa d'asta e minaccia? Dicono che lei abbia perseguitato Andrea Franceschi.
«Che cosa strana! Quando si indagano i politici è sempre perché c'è persecuzione. Se invece si indaga un cittadino qualsiasi è normale. I politici purtroppo mal sopportano i controllori».
E quel famoso blitz della Finanza a Cortina per scovare chi dimenticava di rilasciare lo scontrino?
«Già. Blitz contro il quale si scagliò anche un ex assessore che poi ha patteggiato 8 mesi per evasione fiscale. Ma io dico: come mai un commerciante si dimentica di rilasciare lo scontrino e invece non si dimentica mai di prendere i soldi? Strana questa cosa».
Ha mai subito pressioni per far cadere un'inchiesta o per salvare qualcuno?

«Mai, anche se indagavo su personaggi politici. E soprattutto non ho mai frequentato quei posti dove potessero crearsi situazioni di imbarazzo. Così come non sono mai andato da un giudice a perorare la mia causa. Sono un uomo libero».
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Il Gazzettino