«Ci avevano illusi di avere una casa Ma era una prigione»

«Ci avevano illusi di avere una casa Ma era una prigione»
L'INTERVISTACONA (VENEZIA) «Cona is not good, but Serena is even worse». Insomma, parafrasando il detto, se Cona piange, Treviso non ride, anzi. Quei migranti in fuga erano...

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L'INTERVISTA
CONA (VENEZIA) «Cona is not good, but Serena is even worse». Insomma, parafrasando il detto, se Cona piange, Treviso non ride, anzi. Quei migranti in fuga erano pronti a morire pur di non rientrare nella struttura di via Rottanova. Hanno marciato per quattro giorni, decisi a percorrere a piedi anche la Romea, dormendo una notte al freddo in fianco a una strada provinciale, un'altra sui gradini di marmo di una chiesa e una terza in un patronato, senza sapere cosa li avrebbe attesi il giorno successivo. Quando hanno visto che la loro alternativa, però, era l'ex caserma Serena di Treviso, hanno chiesto di ritornare all'hub veneziano. Il nucleo principale dei pentiti è composto da sei giovani nigeriani, a cui si sono aggiunti poi altri 18 migranti che hanno rifiutato le nuove strutture a cui erano stati destinati tra il Trevigiano e il Veronese.

Quando sono rientrati, agli operatori della cooperativa Edeco hanno raccontato di essere stati convinti a lasciare Conetta dal gruppo che più era vicino all'Usb, il sindacato che da lunedì sta assistendo e supportando i migranti in marcia. «Ci siamo iscritti al sindacato, abbiamo firmato le tessere - hanno raccontato agli operatori - e ci hanno aiutati a trattare con prefetto e questore. A qualcuno di noi hanno regalato delle schede telefoniche». Questore e prefetto di Venezia, parlando della marcia della dignità, come è stata ribattezzata, hanno usato entrambi la stessa espressione: «Sono stati illusi».
Tra quei sei nigeriani c'era anche Egbe Lucky, 34 anni. Il volto segnato dalle cicatrici, un cappotto a coprire la t-shirt. Egbe si definisce un perseguitato politico dal governo del suo Paese, racconta di aver intrapreso un'odissea infinita per lasciare la sua Nigeria. In questi giorni, però, ha rischiato di gettare tutto al vento, dopo oltre un anno di attesa, e di perdere l'accoglienza e la risposta della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Che cosa vi aspettavate di trovare fuori da Cona?
«Una struttura diversa da un campo. Qualcosa di più piccolo, più a misura d'uomo. Certo, chi di noi non avrebbe voluto una casa? Però ci sarebbe andata bene semplicemente una realtà più ridotta, con meno persone».
Perché avete lasciato la base rischiando anche di perdere l'accoglienza?
«Perché Cona no buono, is not good. Io sono qui da un anno e due mesi e non ne potevo più. Ho visto il gruppo che se ne andava e ho creduto che fosse la soluzione migliore».
Per voi è stato un po' come passare dalla padella alla brace: da un'ex base militare a una caserma.
«Cona non va bene, ma la Serena di Treviso è molto peggio. C'è sempre tanta gente, i letti sono stretti, gli orari sono quasi blindati. Ce lo avevano detto anche altri connazionali. Ma lì eravamo prigionieri».
Però avete sempre definito anche l'ex base missilistica di via Rottanova come una prigione. Dov'è la differenza?
«No, qui (a Conetta, ndr) è diverso. Qui siamo liberi, non siamo prigionieri. Nessuno ci impedisce di muoverci».
Degli oltre mille migranti di Cona, quelli che in tutto questo tempo hanno imparato un po' di italiano si contano sulle dita di una mano. Si tengono i corsi alla base o no?
«Si, ci sono. Ci sono andato anche questa mattina. Non siamo obbligati ad andare a lezione, non tutti ci vanno. Adesso noi ci stiamo dando da fare, ma comunque non è facile. Il problema è che fuori da quell'ora di scuola, nessuno parla italiano. E per imparare una lingua non è sufficiente, bisogna studiare ed esercitarsi. Soprattutto per chi, come noi, ha una lingua madre così distante da quelle neolatine».
Adesso cosa farai? Hai intenzione di aggregarti al nuovo gruppo di manifestanti?
«No, basta, rimango qui. Terminerò a Cona il mio percorso in attesa dei documenti della commissione. Mi hanno detto che dovrebbe arrivare la risposta entro un mese, forse addirittura entro una settimana».
Perché hai scelto di lasciare il tuo Paese?
«Il governo nigeriano mi perseguitava. Per fuggire ho camminato per un mese attraverso il deserto, poi sono arrivato in Libia e infine mi sono imbarcato per l'Italia. Ho viaggiato per due mesi prima di sbarcare sulla costa».
Lo rifaresti?

«Sì, io cerco solo una vita migliore, quella che non potevo avere nel mio Paese. Sono un operaio, sono bravo a lavorare il ferro. Ora voglio ricominciare da zero e avere una possibilità».
Davide Tamiello
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino