Il capo sembra proprio lui, Cherif. E' lui che concede interviste, è lui che si fa arrestare per tornare in libertà un anno e mezzo dopo - e poi dicono della giustizia italiana...
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Se non sono loro i macellai di rue Nicolas Appert, certamente non stanno facendo nulla per smentirlo. Hanno ignorato anche l'appello del loro avvocato a costituirsi, sono due fantasmi forse già finiti nella rete. Eppure non si arrendono, stanno vendendo carissima la pelle, dando l'idea di essersi a lungo preparati a questi momenti. Cherif Kouachi, sempre lui, a un certo punto della sua giovane vita l'ha proprio dichiarato: «E' scritto nei sacri testi: è bene morire da martire». Lo disse in un'intervista a France3 nel 2005, ieri ripescata e rimandata in onda. Spiegava la sua ammirazione per quell'imam e raccontava dei suoi viaggi in Siria e in Iraq. Ma neppure questo è bastato a fermarlo. Ce lo ritroviamo tre anni dopo arrestato per davvero, coinvolto in un'indagine sul reclutamento di terroristi per l'Iraq. Tre anni di carcere gli vengono inflitti, ma la pena sarà dimezzata perché non ha precedenti. Esce e ricomincia a viaggiare. Stavolta al suo fianco c'é Said. Sono loro i freschi «reduci dalla Siria» su cui le indagini hanno puntato sin dall'inizio. Due campioni dei foreign fighter, due esemplari classici di terroristi «homegrown», nel senso che ce li siamo cresciuti in casa e poi esportati, e poi fatti tornare. Addestratissimi, due boia impeccabili, come hanno dimostrato. L'errore nel chiedere l'indirizzo, certo, e anche la scarpa finita sotto la Citroen e poi ripresa, ma per il resto un concentrato di velocità, precisione e ferocia, fino a eliminare senza pietà due algerini come loro. L'agente Ahmed Menabet e il correttore di bozze Mustafa.
Incappucciati si sono presentati a Charlie Hebdo e incappucciati sono rimasti, almeno a dar credito alle diverse testimonianze raccolte. E anche apparentemente imprudenti, forse solo così sicuri da voler lasciare ad ogni costo delle tracce. Le due rivendicazioni innanzittutto, quel proclamare «Allah è grande» e poi «Vendicheremo il Profeta», quel prendere di petto il povero automobilista di Porte de Pantin per gridargli in faccia: «Dillo a tutti che siamo Al Qaeda dello Yemen».
Ma non solo. Il benzinaio che giura di averli visti ieri mattina rapinare cibo e carburante nella sua stazione di servizio, sostiene anche di aver notato nell'auto un paio di bandiere jihadiste e una decina di bottiglie motolotov. E perfino un lanciarazzi. Armati fino ai denti, con una via di fuga probabilmente già studiata prima di passare all'azione. Le loro foto, ormai, sono su tutti i giornali del mondo, le hanno diffuse tutte le tv, eppure ancora non li prendono. Come avvolta nel mistero resta la figura del loro complice, probabilmente l'uomo che li aspettava in auto pronto alla fuga.
Il ragazzino preso ieri dalla polizia ha facilmente potuto dimostrare che quella mattina lui era a scuola. E' stato un buco nell'acqua. C'è chi arriva a sostenere, ma si romanza parecchio, che il loro complice possa essere addirittura lo sparatore di Montrouge, l'uomo che ieri mattina ha ucciso una vigilessa dalla parte opposta della città. Ma niente per ora lo fa pensare. Eppoi questo vieni e vai, da una parte dall'altra di Parigi, perché è sempre quel benzinaio che sostiene di averli visti diretti a un certo punto verso Sud, come se avessero cambiato idea. La debbono aver cambiata di nuovo, se i reparti speciali stanno ancora tutti lì, 70 chilometri a Nord di Parigi, in Piccardia, con i fucili puntati contro una fattoria. I due o tre appartamenti perquisiti si sono dimostrati covi freddi. Ma di qualche complicità potrebbe essersi serviti, qualche base insospettabile potrebbero averla usata. A dimostrazione che non sono dei «piccoli delinquenti», come sta ancora scritto negli archivi della polizia francese.
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Il Gazzettino