Camorra in Veneto, il clan assumeva le prostitute per garantire i permessi

Camorra in Veneto, il clan assumeva le prostitute per garantire i permessi
IL PROCESSOMESTRE Il loro lavoro era lungo il Terraglio, tra Mestre e Treviso, ma formalmente risultavano assunte da imprese di pulizia nelle quali non hanno mai messo piede....

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IL PROCESSO
MESTRE Il loro lavoro era lungo il Terraglio, tra Mestre e Treviso, ma formalmente risultavano assunte da imprese di pulizia nelle quali non hanno mai messo piede. Così il boss dei casalesi di Eraclea, Luciano Donadio, garantiva a decine di prostitute la copertura di un regolare contratto di lavoro, grazie al quale potevano ottenere il permesso di soggiorno e giustificare la loro presenza in Italia.

La circostanza è emersa ieri, nel corso del processo celebrato nell'aula bunker di Mestre, dove Donadio è alla sbarra con l'accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso assieme ad una trentina di coimputati, chiamati in causa per numerosi episodi criminali.
A raccontare delle prostitute assunte nelle imprese di pulizia sono stati i carabinieri di Treviso, ascoltati ieri in qualità di testimoni: furono i militari dell'Arma, infatti, ad accorgersi del trucco, nel corso di una serie di controlli sul fenomeno della prostituzione lungo la strada che collega Mestre a Treviso.
L'uomo che per conto del boss si occupava di quelle ragazze è stato indicato nel napoletano Antonio Basile, accusato di aver partecipato all'organizzazione criminale fin dal 2007.
PROSTITUTA MINACCIATA
Il capitolo prostituzione è stato affrontato anche nella testimonianza di un altro militare dell'Arma che, nel giugno del 2001, intervenne a Jesolo a seguito della denuncia di una ragazza che aveva ricevuto ripetute minacce, anche con una pistola, in relazione alle quali furono identificati due presunti appartenenti al clan dei casalesi: Salvatore Laiso (successivamente diventato uomo di fiducia del boss campano Francesco Schiavone, detto Sandokan, e quindi ucciso in un agguato) e Rosario Furnari arrestato per una vicenda di armi per la quale ha già patteggiato.
L'udienza di ieri è poi ruotata attorno ad un episodio che i pm Roberto Terzo e Federica Baccagini hanno voluto ricostruire per dimostrare le modalità di azione con cui il clan Donadio spadroneggiava per dimostrare di avere il controllo del territorio.
Protagonista il figlio maggiore del boss, Adriano Donadio che, secondo alcuni testimoni, intervenne a dar manforte ad un amico in una sorta di missione punitiva contro un giovane, figlio della titolare di un bar di Eraclea, colpevole di aver guardato con troppa insistenza la sua ragazza.
«TI SPARO IN BOCCA»
«Tu non sai chi sono io: Donadio. Ti sparo in bocca!», avrebbe urlato l'allora ventiduenne figlio d'arte, durante un pestaggio avvenuto nel 2011 al Pit Stop di Eraclea, nel corso del quale furono rovesciato tavolini e la vetrinetta delle brioches, e rimedò uno schiaffo la stessa titolare del bar, intervenuta per far cessare le violenze.

Tra i testimoni è stato quindi ascoltato il carabiniere intervennuto nel 2001 ad Eraclea dopo l'attentato dinamitardo all'agenzia immobiliare Universo che, secondo l'ex braccio destro del boss, Christian Sgnaolin, fu fatta esplodere per vendetta nei confronti del titolare, Mario Boso, il quale si era rifiutato di mettere appartamenti a disposizione degli operai di Donadio perché terroni. Il processo con rito ordinario proseguirà il 5 novembre, mentre quello abbreviato dovrebbe andare a sentenza a metà mese.
Gianluca Amadori
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino