Coraggio di madre, torna in Ucraina a riprendersi il figlio: «In fuga per 30 chilometri a piedi tra le bombe»

Liuba Gaidash
Arrivano alla spicciolata, mentre sopra le loro teste rombano gli F-16 (tanti, ieri mattina) che decollano da Aviano e che sorvolano Pordenone puntando a nord-est. Non fanno...

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Arrivano alla spicciolata, mentre sopra le loro teste rombano gli F-16 (tanti, ieri mattina) che decollano da Aviano e che sorvolano Pordenone puntando a nord-est. Non fanno paura, quegli aerei. Non sono Mig. La paura è alle spalle, l’angoscia no. Quella durerà a lungo. Si mettono tutti in fila davanti alla Questura del capoluogo del Friuli Occidentale, mischiandosi ai richiedenti asilo dell’Asia centrale e del subcontinente indiano, che da anni ormai calpestano a intervalli regolari le mattonelle che portano all’ufficio immigrazione. Ma chi fugge dalla guerra - vera - oggi ha una corsia preferenziale: viene automaticamente considerato rifugiato. Fra stanotte, 3 marzo, e domani, sono attesi in regione su 3 corriere 150 profughi, una cinquantina dei quali troveranno alloggio a Sappada in case private. E già ieri mattina, alle porte della Questura di Pordenone, sono arrivate famiglie intere. I bagagliai delle auto piene di borsoni, gli occhi spenti dall’incredulità. I documenti da firmare, poi il tampone anti-Covid. Procedure, le ultime dopo un viaggio eterno. 

LA TESTIMONIANZA
Liuba Gaidash arriva di fronte alla Questura in macchina. Targa italiana. Ha 37 anni. Con lei c’è suo figlio. Si chiama Nikola e ne ha 15. Un quindicenne come tanti, da noi. Maglione col cappuccio e disegno “cattivo” sul petto e sulle spalle. Da rapper. Un quindicenne italiano, se non si sapesse da dove arriva. In realtà è scappato. O meglio è stato messo in salvo da una mamma coraggiosa che se l’è andato fisicamente a prendere. Storie di emigrazione a metà come tante: la madre in Italia (a Pordenone) per lavorare, il figlio in Ucraina per continuare gli studi proprio grazie agli sforzi della mamma. In mezzo, l’imponderabile: una guerra in Europa. «Una guerra - racconta Liuba, capelli biondi e la grinta di chi sa di aver compiuto un mezzo miracolo - che ci ha costretti a fare trenta chilometri a piedi. Io con un borsone, Nikola con uno zaino». Sì, trenta chilometri a piedi perché da Ivano-Frankivs’k (città a sud di Leoopoli, Ucraina occidentale) al confine con la Polonia non c’era altro modo per continuare il viaggio. «Fino a quel punto ci eravamo organizzati con delle auto prenotate, ma dopo è stato impossibile - spiega ancora Liuba -. Lungo la strada abbiamo visto i mezzi militari. Avevamo freddo e sete, ci siamo fermati in una scuola per bere un po’ d’acqua». Liuba e Nikola, mamma e figlio, sono partiti dall’Ucraina venerdì mattina. Sei giorni di viaggio attraverso la Polonia e poi in direzione Italia, Pordenone. 

L’ANGOSCIA
«Alle nostre spalle - racconta ancora la 37enne che lavora come cameriera nel capoluogo del Friuli Occidentale - abbiamo lasciato molto. Mio figlio praticamente tutto. Io ho in Ucraina i miei genitori, che sono rimasti, ma soprattutto mio fratello». Quasi coetaneo, non può andarsene perché sarebbe trattato da disertore. «Non ha mai fatto il militare in vita sua - confessa Liuba - ma adesso sta aspettando la sua chiamata per arruolarsi». Nel frattempo è entrato a far parte di quelle milizie non ufficiali di cui si sente parlare ogni giorno. «Di notte, quando scatta il coprifuoco, fa la guardia al quartiere con altre persone. Prende la macchina e pattuglia le strade, sperando di non incontrare il nemico». Nel parcheggio della Questura, dopo i tamponi e i documenti da firmare, Liuba e Nikola incontrano una conoscente italiana che dà loro tre borse con viveri e aiuti. Si abbracciano, sfugge qualche lacrima. «Adesso devi imparare l’italiano eh» esclama la donna rivolgendosi al 15enne. «Io voglio studiare in Ucraina», risponde Nikola tradotto dalla madre. Purtroppo potrebbe non essere così facile, almeno a breve. 

L’ORGANIZZAZIONE


Nel frattempo nel piazzale di fronte alla Questura arriva un’altra famiglia. È composta da cinque persone e arriva da Leopoli. «Forza Ucraina», sono le uniche parole in italiano conosciute e imparate probabilmente poco prima. Alle spalle del palazzone che ospita il cuore della polizia in città è stato allestito un gazebo per i tamponi anti-Covid grazie alla collaborazione della Croce rossa. Sembrano tornati i giorni dell’emergenza. Il punto è che non sono tornati. L’emergenza è un’altra. La pandemia era stata paragonata a una guerra. Ora forse quelle parole sembreranno poco appropriate. 
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Il Gazzettino