Sacile. Militare muore di tumore dopo le missioni in zone contaminate: indennità agli eredi

Militari
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PORDENONE - Sergente maggiore del 7° Reggimento Trasmissioni di Sacile, morì a 34 anni dopo aver partecipato a missioni in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Iraq. Sette missioni all’estero, con una prolungata permanenza all’aperto in situazioni precarie e teatri ad alto rischio. La battaglia davanti al Tar portata avanti dall’avvocato Andrea Bava, non senza difficoltà, ha permesso alla vedova e ai figli rimasti orfani di poter accedere a una pensione privilegiata e all’equo indennizzo. «È il primo passo - spiega il legale commentando un pronunciamento che conferma il recente orientamento della giurisprudenza in questi casi - Abbiamo avviato anche la pratica per ottenere i benefici in qualità di vittima del dovere». È stato il Tar del Friuli Venezia Giulia ad annullare il decreto del ministero della Difesa che, sulla base delle conclusioni del Comitato di verifica per le cause di servizio, aveva negato alla famiglia il riconoscimento della malattia da causa di servizio.

LA DECISIONE

Il caso era già stato discusso e gli stessi giudici amministrativi avevano invitato il Comitato a considerare i potenziali fattori di rischio associati alla tipologia dell’impiego nelle missioni all’estero, valutando in modo analitico se la neoplasia che ha portato il militare alla morte potesse essere riconducibile all’esposizione a sostanze nocive, come ad esempio l’uranio impoverito. Il Comitato di verifica, nel nuovo parere dello scorso agosto, si è però limitato ad affermare che, «dall’esame della letteratura anche internazionale disponibile», nei luoghi delle missioni non c’erano elementi statistici rilevanti che potessero avere un nesso con il tumore sviluppato dal militare. I giudici hanno invece valorizzato un’informativa del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri che, il 4 febbraio 2004, proprio in Kosovo, metteva in guardia sul fatto che la Direzione generale della Sanità militare aveva invitato a sospendere immediatamente l’acquisizione di derrate alimentari (verdure e carne) e di acqua perché uno studio dell’Università di Siena aveva evidenziato una «vasta area di contaminazione ambientale/alimentare in Kosovo da metalli pesanti tossici». Il soldato di stanza a Sacile era stato impiegato in Kosovo nel 2002, nel 2006 e nel 2007.

I GIUDICI

Il Tar osserva inoltre che il Comitato non ha portato alcuna prova a supporto che la patologia tumorale da cui era afflitto il militare fosse riconducibile a fattori “eredo-familiari”. Era stato tutto «presunto». «In definitiva - scrivono nella sentenza -, il Comitato di verifica, nel riesame effettuato, ha disatteso eludendole/violandole le precise indicazioni» date dal Tar nella precedente sentenza. Non è pertanto riuscito a dimostrare l’esistenza di fattori in grado di negare il nesso di causalità fra attività lavorativa e l’insorgenza della neoplasia. Con la sentenza pubblicata ieri la famiglia del militare ha ottenuto il riconoscimento, da parte dei giudici amministrativi, della dipendenza da causa di servizio e la corresponsione dell’equo indennizzo per l’infermità.

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Il Gazzettino