Ucraina, la Marca si mobilita. Marina Salamon: «Aiutiamoli, chi fugge è come noi»

Non si ferma l'esodo di donne, bambini e uomini dall'Ucraina
TREVISO - «Sandro Bottega è un imprenditore del bene, lo stimo e ho deciso di aiutarlo. Per ora stiamo ospitando 10 persone, ma potremmo arrivare anche venti»....

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TREVISO - «Sandro Bottega è un imprenditore del bene, lo stimo e ho deciso di aiutarlo. Per ora stiamo ospitando 10 persone, ma potremmo arrivare anche venti». Così Marina Salamon racconta come ha scelto di abbracciare la causa del produttore trevigiano, arrivando ad ospitare ad oggi dieci rifugiati ucraini. L’imprenditrice, già compagna di Luciano Benetton e madre di suo figlio Brando, che a Padernello di Paese ha una delle sue aziende di punta (Altana), con l’attuale marito Paolo Gradnik ha aperto le porte della propria casa veronese a madri e figli.

«Noi siamo cresciuti così. Eravamo cinque fratelli, ma i miei hanno sempre avuto figli in affido».

È vero che tutto è iniziato con un messaggio su WhatsApp tra lei e Sandro Bottega?

«Si. Conosco Sandro da tanti anni e lo stimo per il suo impegno. Avevo letto che aveva accolto persone in fuga dalla guerra e gli ho mandato un messaggino. Gli ho scritto: “Come posso essere utile”? È partita così, è stato molto semplice».

E poi come è continuata e quali sono state le prime riflessioni?

«I nostri figli sono all’estero a studiare e lavorare. Abbiamo iniziato precettando le loro stanze. Poi abbiamo pensato di riconvertire villa Buri, un luogo di nostra proprietà che avevamo in passato destinato agli scout, in appartamenti per famiglie. Ci siamo attivati per mettere un minimo di arredamento, un appartamento è già stato occupato e ne stiamo attrezzando ancora».

Molte persone non sanno come muoversi. Voi come avete dato la vostra disponibilità?

«Le prime persone sono arrivate tramite Sandro, poi ci siamo iscritti al registro regionale delle offerte di alloggio a titolo gratuito, abbiamo contattato la Caritas e altre associazioni. Oltre alla casa abbiamo effettuato donazioni a chi manda i pulmini alla frontiera. Siamo qui in attesa di capire quante persone ci assegneranno oltre a quelle che già sono con noi».

C’è una foto bellissima di voi a tavola, tutti assieme ...

«A casa abbiamo una mamma con due bimbe. Hanno voluto cucinarci il borsch, così abbiamo mangiato il piatto tradizionale ucraino. Non tutte le sere sono così spensierate. La nostra ospite è già scappata dal Donbass sette anni fa. I nonni sono rimasti là, si rifugiano dalle bombe in cantina. Lei è allarmata».

Come va la vita in comune?

«Loro sono fantastiche: le bimbe facevano ginnastica ritmica a livello agonistico e ci stiamo muovendo perchè riprendano subito gli allenamenti. Ci siamo occupati della tessera sanitaria, dei tamponi e prioritariamente dell’inserimento scolastico. Ma devo dire che professori e dirigenti sono stati fantastici, hanno davvero aperto le braccia non solo a loro, ma anche agli altri ragazzi che abbiamo in Villa. Stiamo sistemando dalla prima elementare all’università».

Che tipo di reazione vede nella gente?

«L’Italia si sta dimostrando molto generosa. In questo c’è, anche, una condivisione diversa rispetto ad altre guerre. L’Europa si trova un conflitto alle porte di casa. E in più le persone che fuggono sono come noi. La mamma ospite a casa nostra è arrivata con l’auto ibrida, lasciando una vita agiata. Lo scorso anno le sue bambine erano turiste in Italia, oggi sono profughe».

Cosa dicono i suoi figli?

«Orgogliosi, citano Gaber. Quando canta “una famiglia con le porte aperte”». Lei non è nuova ad esperienze di affido ... «In casa mia abbiamo sempre vissuto così. Nel 1992 ho incontrato un’avvocatessa bosniaca che faceva la cameriera nel Club di spaghetti vicino alla mia azienda. Aveva un bambino di sei mesi, il marito era rimasto a Mostar dove poi è morto per difendere uno dei loro ristoranti. È venuta a casa mia, siamo amiche da trent’anni. E suo figlio è ora cittadino italiano, è poliziotto e fa parte della nazionale di rugby. Ma con noi hanno vissuto anche due ragazze, una rumena e una marocchina. La seconda oggi vive a Birmingham, è sposata ed è in tutto e per tutto la sorella dei miei figli».

Cosa insegna la sua esperienza?

«Che aprire le porte della propria casa rende migliori e più felici. Che si può fare, davvero. Io ispiro la mia vita al motto “I care” che è l’esatto contrario del me ne frego». 

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Il Gazzettino