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VENEZIA - L'intervento di soccorso, quella notte, si è concluso alle 21.15. Dopo un'ora e 37 minuti, dunque, (il momento dell'impatto con il guardrail del cavalcavia della Vempa, stando alle telecamere, sarebbe avvenuto alle 19.38), tutti i 36 passeggeri a bordo (15 feriti e, purtroppo, 21 morti) erano fuori da quell'autobus devastato. Ieri, per rendere omaggio al lavoro dei vigili del fuoco in una delle peggiori tragedie che la città abbia mai vissuto, nella caserma dei pompieri di Mestre sono arrivati Carlo Dall'Oppio, capo del corpo nazionale dei vigili del fuoco, e il sottosegretario del ministero degli Interni Emanuele Prisco. Presenti tutti i settanta uomini che avevano partecipato all'intervento della notte del 3 ottobre. Tra loro anche il quartetto della prima squadra di soccorso intervenuta composto dai tre capisquadra Alessio Tanduo, Davide Bellotto e Davide Signora e dall'ispettore antiincendio Giuseppe Sifanno.
«In 28 anni di servizio non mi è mai capitato di trovarmi in una situazione del genere - racconta Signora - l'impatto, al nostro arrivo, è stato quello di un autobus in fiamme. All'interno le persone urlavano. In queste condizioni non c'è stato il tempo materiale di fare un sopralluogo o di pianificare l'intervento. Abbiamo dovuto bagnare le persone con l'acqua e provare a spegnere il fuoco per permettere alla squadra di entrare». Una volta all'interno lo scenario era, se possibile, ancora peggiore di quanto sembrasse. «Quando siamo arrivati, per primi, eravamo in pochi, 7/8 uomini - continua Signora - l'autobus era accartocciato su se stesso, molte persone erano incastrate tra le lamiere e tra i sedili. C'erano i morti, tanti, e c'erano i vivi, che gridavano con gli abiti in fiamme».
L'AIUTO DEGLI STRANIERI
È stato prezioso, a questo punto, l'aiuto di due giovani africani. Boubacar Tourè, 27enne gambiano, e Godstime Erheneden, 30enne nigeriano, operai della Fincantieri in trasferta che vedendo dalla loro stanza l'autobus caduto dal cavalcavia, hanno scelto di lanciarsi tra le fiamme per dare una mano. «Ci hanno aiutato. Insieme a loro siamo riusciti a sfilare una bambina, ancora viva, tra i corpi dei deceduti. Era ustionata, ma cosciente, respirava. Riuscire a prenderla in braccio, stringerla, ci ha dato una carica di adrenalina. Ci siamo aggrappati a quell'immagine, a quel viso, per farci forza».
IL POST TRAUMA
Il pre e il durante si possono gestire.
L'UOMO DELLA FOTO
C'è un'immagine di quella notte che è diventata uno dei simboli della tragedia del cavalcavia. La foto di due vigili del fuoco stremati, sconvolti, accasciati su una ruota di un'autobotte. Uno di quei due uomini è il caposquadra Davide Bellotto. «È innegabile, ce lo siamo chiesti subito: ce la faremo a raggiungere l'obiettivo? Quell'inferno di fiamme, fumo, urla, era qualcosa di indescrivibile. Uno scenario che ha fatto saltare i protocolli. In quei momenti l'emotività devi metterla da parte, tenerla per dopo, quel che conta è agire». «Non ci avevano detto all'inizio che quel mezzo era completamente avvolto dalle fiamme - aggiunge l'altro caposquadra, Alessio Tanduo - la prima cosa da fare era permettere ai ragazzi di riuscire ad avvicinarsi». La collaborazione con i sanitari è stata fondamentale, come spiega Sifanno: «Avere il 118 nella stessa sede significa che sul luogo dell'intervento ci si chiama per nome e ci si capisce solo guardandosi negli occhi». A lavoro finito, però, ci sono i cocci da ricomporre. «Sono tra i più vecchi, c'erano colleghi più giovani che erano sfigurati - aggiunge Bellotto - io e Alessio li abbiamo rincuorati, come dei fratelli maggiori. Come si affronta tutto questo? Senza vergognarsi di piangere o chiedere aiuto». «Siamo pompieri - conclude Sifanno - Non eravamo soli prima, non siamo soli ora».
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Il Gazzettino