Tommaseo, quella lotta a fianco di Daniele Manin

Illustrazione di Matteo Bergamelli
Nacque a Sebenico nel 1802, si formò a Spalato, studiò a Padova, avviò la sua carriera letteraria a Milano e Firenze (frequentando abitualmente intellettuali...

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Nacque a Sebenico nel 1802, si formò a Spalato, studiò a Padova, avviò la sua carriera letteraria a Milano e Firenze (frequentando abitualmente intellettuali come Alessandro Manzoni, Antonio Rosmini e Gino Capponi), visse in esilio prima a Parigi e poi a Corfù, trascorrendo i suoi ultimi anni a Torino e poi ancora a Firenze, dove morì nel 1874. In mezzo a tutto ciò, dieci anni veneziani; ma dieci anni che valsero una vita intera. Perché tra l'esilio parigino e quello greco, Niccolò Tommaseo fece in tempo a vivere l'epopea del 1848 a fianco di Daniele Manin: fu ministro nel governo provvisorio e tra i più accesi protagonisti della difesa della Repubblica veneziana.


A Venezia lo si ricorda logicamente più per quello che per i suoi molti meriti letterari; e in fondo Tommaseo fu davvero un grande combattente, che fece della parola la sua arma più affilata: all'Ateneo Veneto, nella sala che oggi porta il suo nome (l'ex “albergo piccolo” della Confraternita della Misericordia), nel 1847 pronunciò un memorabile discorso sulla libertà di stampa che nel gennaio dell'anno successivo gli costò il carcere. Fu liberato a furor di popolo il 17 marzo 1848 con Daniele Manin, e diede inizio all’avventura della Repubblica di San Marco che per diciassette mesi riuscì a mantenere la sua autonomia dall’Impero Austro-Ungarico.

Una quindicina d'anni prima, a Firenze, un suo articolo in favore della rivoluzione greca pubblicato sulla “Antologia” di Giovan Pietro Viesseux aveva sollevato le proteste del governo austriaco, che causarono la chiusura della rivista e il suo esilio francese. Tornò in Italia solo nel 1839 e si trasferì appunto a Venezia. Fin qui la sua attività politica e risorgimentale, comunque sempre strettamente intrecciata con la sua produzione letteraria. A Venezia, dove era già noto per la pubblicazione di diversi saggi e opere, arrivò avendo già dato alle stampe il “Nuovo dizionario de' sinonimi della lingua italiana”, che gli aveva procurato una certa notorietà, e scrisse quello che è considerato il suo capolavoro, “Fede e bellezza”, una storia di peccato e redenzione che prelude al moderno romanzo psicologico. Nell'ambito degli studi etnografici, si era invece distinto con la raccolta dei “Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci”.

Fu una delle figure più significative e controverse dell'intellettualità cattolica ottocentesca; un sentimento religioso che – per esempio – lo portò a detestare il contemporaneo Leopardi, del quale non gradiva “la bestemmia fredda e la sventura noiosa; [...] l'uomo che neghi Dio e la bellezza, eziandio umana, del Cristianesimo, parmi natura gretta e dannata in questa vita a gelo perpetuo”, scriveva in una lettera destinata al poeta napoletano Alessandro Poerio, che qualche anno più tardi sarà ferito a morte durante i moti del '48 in quella via di Mestre che ne porta oggi il nome.

Rifugiatosi a Corfù dopo l'epopea veneziana, si sposò con Diamante Pavello, che lo assistette nella sua progressiva cecità – dovuta a una sifilide contratta a Parigi – vissuta in una drammatica tensione tra peccato e pentimento, colpa ed espiazione, così come viveva la sua fede religiosa. Da cattolico, dichiarò la necessità della rinuncia della Chiesa al potere temporale. Repubblicano e federalista, avversò alla politica unitaria di Cavour arrivando a rifiutare con coerenza, dopo l'Unità d'Italia, la cattedra universitaria e il seggio in Senato.



Dedicò i suoi ultimi anni alla composizione del monumentale “Dizionario della lingua italiana”, in otto volumi, completato da altri studiosi solo dopo la sua morte. Venezia gli dedicò nel 1882 una statua in campo Santo Stefano, della quale lo scultore Francesco Barzaghi sbagliò il calcolo del baricentro, finendo per dover sorreggere la figura di Tommaseo con una pila di libri che sembra uscirgli da sotto la zimarra. Ai veneziani non parve vero, e dal primo istante la statua si beccò l’irriverente soprannome di “Cagalibri”, che probabilmente non rende giustizia alla grandezza del personaggio. Ma Venezia, si sa, è anche questo. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino