VENEZIA - Quattrocento anni prima che le donne marciassero per rivendicare i propri legittimissimi diritti civili, umani, amministrativi; che bruciassero i reggiseni e...
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Nella sua battaglia genuinamente protofemminista suor Arcangela, nata nel 1604 come Elena Cassandra Tarabotti in una agiata famiglia di Castello, partì dalla sua tragica esperienza di monaca forzata per teorizzare in più libri la libertà delle donne di essere padrone del proprio destino, di avere diritto al lavoro come strumento di autonomia e allo studio come arma di emancipazione e di difesa; soprattutto, di essere state create uguali agli uomini, e come loro dotate di libero arbitrio.
La sua vicenda divenne così l’intelligente pretesto per una lotta a favore della condizione femminile: primogenita di una famiglia numerosa, nel 1617 fu destinata tredicenne al monastero di Sant’Anna, probabilmente per il fatto che zoppicava e ciò non la rendeva facilmente maritabile. Da quel convento, nel quale ricevette la consacrazione solo dodici anni più tardi, non uscì mai più. Dopo un inizio di vita monacale tribolatissima (condotta con fughe ripetute dal monastero a caccia di amori fugaci e col rifiuto di indossare l’abito talare) trovò un suo personale misticismo, senza mai rinunciare alla propria autonomia di pensiero.
“La tirannia paterna o la semplicità ingannata” è il suo primo libro, firmato con il quasi anagramma di Galerana Baratotti, che fu in realtà pubblicato postumo e col quale Arcangela Tarabotti denuncia i padri che ingannano le figlie per farle entrare in monastero, ma anche la società veneziana e la stessa Repubblica che permettono questa pratica odiosa, oltre che le autorità ecclesiastiche accusate di superficialità e complicità. La Tarabotti pubblicò altre tre opere, che le diedero fama internazionale: “L’Inferno monacale”, “Il Paradiso monacale” e un dittico proto femminista con una “Antisatira” in risposta al “Lusso donnesco” di Francesco Buoninsegni e lo scritto “Che le donne siano della specie degli uomini”, realizzato in risposta a un trattato che sosteneva che le donne non avessero un’anima. Altre opere, di cui si conoscono i soli titoli, sono andate invece perdute: circolavano soprattutto in forma manoscritta, poiché trattando di argomenti “sospetti” non erano facili a pubblicarsi.
Esiste anche un epistolario, che testimonia gli scambi intellettuali che la monaca veneziana ebbe con i maggiori pensatori e pensatrici dell’epoca. Arcangela Tarabotti non disdegnava di leggere Nicolò Machiavelli ma anche “l’eretico” Ferrante Pallavicino, scrittore satirico fatto giustiziare in Francia da papa Urbano VIII. «Quivi incarcerate – racconta in una delle sue opere, riferendosi alle ragazze monacate forzatamente – non arrivano al porto della destinata gloria, ma restan sommerse fra le disperationi cagionatale dai padri sceleratissimi, et in vecce d’immendarsi di quelle poche legerezze comesse nella pueritia, avanzandosi nei maneggi e traffichi del mondo, diventan peggiori e s’incaminano nell’offesa del loro mal volentieri accetato Sposo». Arcangela Tarabotti morì per una bronchite a 48 anni, il 28 febbraio nel 1652.
Illustrazione di Matteo Bergamelli
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Il Gazzettino