Strage Coimpo, i giudici: «Bastava un rilevatore d'allarme per evitarla»

La lettura della sentenza di primo grado in tribunale a Rovigo
ADRIA  - «Non solo l’eventualità della reazione chimica era prevedibile, ma era anche nota ai vertici aziendali l’esistenza di una problematica...

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ADRIA  - «Non solo l’eventualità della reazione chimica era prevedibile, ma era anche nota ai vertici aziendali l’esistenza di una problematica emissiva espressamente riferita al rilascio dell’acido solfidrico»: la sentenza d’appello sul “processo Coimpo”, non si discosta da quella di primo grado, pronunciata il 29 ottobre 2019 dal giudice Nicoletta Stefanutti, riconoscendone la validità dell’intero impianto. Questo quanto emerge dalla lettura delle motivazioni appena depositate della sentenza pronunciata il 7 marzo scorso dalla Corte d’Appello di Venezia. 


«Con riguardo alla dotazione di sistemi di allarme o di rilevazione delle emissioni nocive - ribadiscono i giudici di secondo grado - i periti hanno scritto nel loro elaborato, e confermato a dibattimento, che con missiva del 29 marzo 2012 la Provincia di Rovigo aveva richiesto a Coimpo la valutazione delle emissioni della vasca D senza che la società si fosse attivata in alcun modo, addirittura rifiutandosi di eseguire i monitoraggi richiesti, che riteneva troppo costosi. La presenza dei rilevatori per gli addetti alla vasca D, ovvero di sistemi di allarme finalizzati a segnalare tempestivamente incidenti o emergenze, sarebbe stata salvifica».
Per quanto riguarda i reati di getto pericoloso e di emissioni in assenza di autorizzazione, ovvero la puzza che faceva bruciare occhi e gola ai residenti, nelle motivazioni della sentenza si sottolinea come «il rilascio di quantitativi non trascurabili quantomeno di ammoniaca e acido solfidrico è stato confermato dalle analisi di Osptech. Il ritardo di ben 6 anni con cui l’azienda si mosse rispetto all’obbligo di periodico monitoraggio delle emissioni diffuse imposto dalla Provincia è indicativo del profilo della colpa in capo agli imputati: vi fu una vera e propria resistenza dei vertici di Coimpo-Agribiofert che, per ragioni di risparmio, avevano tentato medio tempore di ottenere una modifica delle modalità esecutive di tali campagne di monitoraggio, ritenute “estremamente gravose”».
 

QUATTRO VITTIME
Si tratta di uno dei processi più importanti della storia recente del Polesine, incentrato sulla più grave tragedia sul lavoro dei giorni nostri, Avvenne il 22 settembre 2014, quando durante lo sversamento di acido solforico nella vasca D dell’impianto Coimpo-Agribiofert di Ca’ Emo si sprigionò una nube tossica che uccise Nicolò Bellato di Bellombra, Paolo Valesella di Bindola, Marco Berti di Sant’Apollinare e Giuseppe Baldan di Campolongo Maggiore. Tuttavia nel giudizio di secondo grado le pene per i sei imputati, condannati per omicidio colposo plurimo, getto pericoloso di cose e violazione delle norme ambientali, sono state rimodulate, anche per effetto della prescrizione, passando da un totale di 31 anni e 9 mesi a 20 anni e 10 mesi. 
 

PRIMI COMMENTI


La rete di avvocati Lpteam, Legal Professional Team, che assisteva le parti civili costituite, l’avvocato Matteo Ceruti, promotore della rete, le associazioni ambientaliste Legambiente e Wwf, l’avvocato Cristina Guasti Italia Nostra e gli avvocati Carmelo Marcello e Marco Casellato numerosi privati cittadini, residenti a Ca’ Emo, esprimono soddisfazione per quanto emerge dalle motivazioni della sentenza e sottolineano come le pene siano state ridotte «per il semplice dato dell’intervenuta prescrizione, per una serie di contravvenzioni in tema di reati ambientali e sicurezza sul lavoro. Un automatismo che, tuttavia, nulla sposta sul giudizio di responsabilità penale degli imputati, né sulle statuizioni civili del processo di primo grado: confermate le responsabilità e le pesanti carenze in termini di sicurezza dell’impianto di trattamento di rifiuti di Coimpo–Agribiofert a Ca’ Emo; anche in relazione al risarcimento dei danni alle parti civili.
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Il Gazzettino