VENEZIA - Furono molti i veneziani che si prodigarono a salvare gli ebrei durante l’occupazione tedesca di Venezia. Ci fu chi aprì la cantina e chi il sottotetto...
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Se da una parte i suoi genitori, Francesca Capoduro e Aldo Bon, entrambi nati nel 1911, lo hanno cresciuto raccontandogli questa storia, dall’altra c’era un’altra famiglia veneziana che raccontava la medesima storia al proprio figlio. Era quella di Lea Rina Cesana, la giovane ebrea tenuta nascosta nel sottotetto, e del marito cattolico Giovanni Ferrari. «La mamma mi ha sempre detto che durante la deportazione era stata salvata da una coppia di amici che l’ha tenuta nascosta - racconta il figlio Mirko Ferrari, nato un anno dopo la fine della guerra - Era molto riconoscente a questi coniugi. Anche perchè sua mamma, cioè mia nonna, Anna Jarach era stata catturata durante la retata all’ospedale civile. Fu portata alla Risiera di San Sabba e da qui ad Auschwitz senza fare più ritorno. Dal convoglio che la portava alla morte lanciò una cartolina indirizzata a Venezia ai suoi sette figli. La ritrovarono sui binari e ce la consegnarono. Quindi ricordare la storia della mamma mi ha emozionato».
I due figli - quello della salvata e quello dei salvatori - di recente si sono incontrati. Si sono raccontati lo stesso episodio, quello sentito dai rispettivi genitori quando erano bimbi, e si sono abbracciati. «La deportazione e l’uccisione di 246 ebrei veneziani non si deve dimenticare - conclude Aurelio Bon - però desidererei che nemmeno il gesto dei miei genitori, sicuramente uno dei tanti, svanisse nel nulla». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino