Lo storico: «Il Veneto? Non esiste Ma ho rivalutato i Serenissimi»

Mario Isnenghi
«Studio il Veneto e la sua storia da tanti anni, ma ancora non mi azzarderei a definirne i confini (d’accordo in questo coi referendari pronti a divenire "Trentini" per un...

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«Studio il Veneto e la sua storia da tanti anni, ma ancora non mi azzarderei a definirne i confini (d’accordo in questo coi referendari pronti a divenire "Trentini" per un piatto di lenticchie). E questo vale tanto più per le civiltà, che per definizione hanno il diritto di avere confini mobili». Il fatto è che proprio alla Civiltà Veneta è dedicato il Premio Masi che sabato verrà attribuito al prof. Mario Isnenghi: il quale rimane però prima di tutto un veneziano, anche se vive da decenni a Padova, e la sua attività ne ha fatto uno dei storici più attivi e apprezzati nell’ambito non solo nazionale.




Ma allora c’è oppure no una civiltà veneta, e come si caratterizza?



«Innanzitutto credo che sia meglio riferirsi all’antico termine "Venezie", che è più ampio, diffuso e plurale di "Veneto". Se la civiltà di un territorio si manifesta sostanzialmente nella sua storia, nel Veneto essa è stata impregnata profondamente dello spirito di Venezia, e indubbiamente è stata, più che altrove, grande, dispiegata per secoli e ricca di valori».



Civiltà veneziana, dunque?



«Non c’è dubbio che questa storia ha avuto al suo centro la vicenda della Serenissima, per cui fa sorridere questo Venetismo odierno applicato a Venezia: che non è mai stata nè "popolo" nè "nathion", ma Impero, quindi per definizione multiplo e dai confini incerti, e ci sarebbe da discutere se votato all’amalgama oppure al dominio dei suoi popoli».



Ma come mai questa riscoperta della Dominante dalla terraferma?



«A parte che bisognerebbe andarlo a chiedere ai Carraresi a Padova o al patriziato vicentino... Certo, il popolo contadino ha sempre apprezzato più il padrone lontano che quello vicino, ma padrone rimane... In ogni caso recentemente ho ripensato le modalità dell’assalto al Campanile di San Marco nel 1997, e ho in parte riconsiderato la mia valutazione di allora sui Serenissimi...»



Si spieghi meglio.



«La mia sensazione è che essi fossero degli statalisti, in rapporto a Venezia, e non certo dei micro-nazionalisti regionali, dei sanmarinisti dialettofoni come certi loro epigoni adesso. Devo ammettere che questo aspetto a me, veneziano e statalista, me li fa dispiacere meno. Senza contare che questo dimostra che il mito di Venezia è tutt’altro che necessariamente mortuario, memoria invalidante come vorrebbe qualcuno che lo impugna».



Un parallelo con la Scozia?



«Beh, la Scozia esiste, il Veneto no. Poi, certo, uno Stato si può anche costruirselo, ma almeno non fatelo dipendente dai lumbard, all’insegna del "comandi, comandi"».



Lei viene premiato anche per aver "avvicinato generazioni di italiani alla realtà della Grande Guerra": come viene celebrato il centenario?



«Mi sembra ancora più partecipato del 150enario dell’Unità nazionale, nel 2011, e con modalità molto differenziate, a seconda dei diversi "attori" coinvolti. In particolare nei luoghi come il Nordest, che furono completamente "dissodati" dal conflitto, la sua memoria si mantiene anche grazie alla concretezza degli oggetti, reperti conservati a volte al limite del feticismo. Questa è una memoria apolitica e neutra, che sostanzialmente ignora le discussioni sulle cause e i fini del conflitto. Ma c’è anche un altro aspetto, che rimanda alla frase sull’"inutile strage" di Benedetto XV, sottratta però dal contesto in cui fu pronunciata e facendone un assoluto che riguarda tutte le guerre: e se questo può andar bene come educazione civica, lo è meno se pretende di farsi storiografia, evitando di confrontarsi sulle ragioni del conflitto e vagheggiando una storia depurata dalle ideologie e dalla violenza. Ecco, non vorrei per questo essere tacciato di guerrafondaio: tutto avrei immaginato, ma non di finire la mia carriera come "bellicista" solo perchè insisto a valutare gli interessi e i rapporti di forza in gioco in una guerra immaginata e fatta da loro, e non da noi». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino