Eraclea, i metodi mafiosi dietro la vittoria elettorale: l'ex sindaco Teso sapeva

Luciano Donadio con la polizia
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MESTRE - L'associazione facente capo a Luciano Donadio è una «gemmazione della realtà camorristica casalese, dalla quale si è sviluppato un organismo che ha presentato nel tempo caratteristiche proprie, per la sua vitalità in un ambito territoriale diverso, ignaro rispetto a certi codici di comportamento, certi riti e anche certi linguaggi verbali e non, pur mantenendo costantemente collegamento funzionale e sinergico con la camorra di Casal di Principe».


Lo scrive la Corte d'appello di Venezia nelle motivazioni della sentenza, con cui, lo scorso gennaio ha in larga parte confermato il pronunciamento di primo grado infliggendo condanne per un centinaio di anni di reclusione.
Il gruppo «ha trasferito nel litorale veneziano le principali caratteristiche della realtà criminale di provenienza - sottolinea il collegio presieduto da Carlo Citterio - fra cui la riconoscibilità del metodo di intimidazione, l'alone di intimidazione diffusa, l'immediata consapevolezza da parte degli interlocutori di chi si trovassero di fronte e di cosa poteva succedere se non si fosse fatto tutto quel che chiedeva Donadio».


L'EX SINDACO
In circa 500 pagine la sentenza conferma innanzitutto la sussistenza del reato di associazione mafiosa, per poi affrontare le posizioni dei venti imputati giudicati con rito abbreviato. Tra questi l'ex sindaco di Eraclea, Graziano Teso, condannato per concorso esterno a tre anni: di lui la Corte scrive che era pienamente consapevole delle caratteristiche mafiose del sodalizio, al quale si mise al servizio per ripagare l'appoggio elettorale del boss.
Secondo la Corte non ci sono dubbi: Donadio e Raffaele Buonanno, arrivati ad Eraclea alla fine degli anni Novanta, hanno mantenuto stretti legami con le famiglie camorristiche campane, circostanza confermata dalle intercettazioni e dalle confessioni delle persone che hanno collaborato con la Procura di Venezia, tra cui l'ex braccio destro del boss, Christian Sgnaolin. Lo stesso Donadio si vantava dell'amicizia con il boss Schiavone.
Ma non solo. Donadio e Buonanno hanno messo in atto una struttura organizzativa imponendo «un rigido rispetto dei ruoli e della propria supremazia», nonché definito «l'ambito territoriale di operatività e la tipologia prevalente dei reati». Il tutto «con minaccia di gravi danni a persone e cose attuati proprio in forza della disponibilità di uomini e mezzi pronti a percuotere, ledere, posizionare esplosivo, incendiare auto, attuare ritorsioni mirate».


INTIMIDAZIONE
I numerosi episodi ricostruiti al processo hanno evidenziato come ci fosse nella cittadinanza «la piena consapevolezza del potere diffuso di intimidazione mafiosa che il gruppo esercitava», tant'è che pochi hanno denunciato le violenze di cui sono vittima. Segno evidente di «assoggettamento diffuso e omertà».
Il gruppo di Donadio offriva protezione e amministrava una sorta di giustizia privata, alternativa a quella dello Stato, altre caratteristiche tipicamente mafiose. Così come il condizionamento dell'attività politica locale. «Donadio ha appoggiato pubblicamente la ricandidatura del sindaco Teso» sottolinea la Corte, ricordando come l'unico avversario politico che contrastò apertamente Teso, Antonio Burato, subì un attentato incendiario. Il corrispettivo dell'appoggio a Teso, fin dalla prima campagna elettorale all'inizio degli anni Duemila, era costituito «da una serie di affari che Donadio e Poles avevano in ballo, tra cui la vendita dell'hotel Victory», si legge nella sentenza, che parla di «convergente comunanza di interessi».


INFILTRAZIONE
Nella sentenza si evidenzia come l'interessamento e la promessa di voti funzionale all'insediamento al vertice del Comune di Eraclea si sia verificato anche in occasione delle elezioni che portarono alla vittoria del sindaco Mirco Mestre (non ancora giudicato): «Il fatto che l'associazione non sia riuscita ad ottenere tutti gli appalti a cui mirava non ha efficacia confutatoria rispetto al quadro ricostruito: essa ha ottenuto di infiltrarsi significativamente nell'economia locale, alterando il mercato nel settore edilizio e altri».
La sentenza tratta anche la posizione dell'ex difensore di Donadio, l'avvocatessa Annamaria Marin per la quale è stata dichiarata la prescrizione per due episodi di favoreggiamento. La Corte ha eliminato la contestata aggravante mafiosa scrivendo che «non vi è prova di una sua consapevolezza delle caratteristiche mafiose dell'organizzazione gestita dal suo cliente». La Corte non l'ha però assolta, come chiedeva il suo difensore, poiché non è palese ed evidente l'insussistenza del reato, come dovrebbe essere per superare la prescrizione a cui l'avvocatessa Marin non ha rinunciato. La Procura le ha contestato di aver detto a Donadio che due suoi uomini, arrestati, non avevano parlato.


IL BOSS TRUFFATO


Nel frattempo ieri è proseguito il processo con rito ordinario, ancora in primo grado, nel quale è imputato lo stesso Donadio. Di fronte al Tribunale ha parlato il calabrese Costantino Positò, accusato di aver riciclato i soldi del clan attraverso operazioni con valute straniere di cui i sodali parlano in molte intercettazioni. «Operazioni farlocche, non se n'è concretizzata neppure una... Ho preso in giro Donadio e mi sento in colpa. Quella per 250 milioni di rubli? Figurarsi se gli oligarchi avevano bisogno di noi...», ha dichiarato incalzato dalla pm Federica Baccaglini, la quale non crede che Positò si sia inventato tutto per farsi pagare alcuni viaggi e spillare qualche soldo a Donadio.
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Il Gazzettino