«Avevo paura della multa, sono vivo grazie all'autovelox»

«Avevo paura della multa, sono vivo grazie all'autovelox»
LO SCHIANTO - «Sono vivo solo perché ho rallentato in vista dell'autovelox che impone i 70 chilometri all'ora. L'ho odiato tanto quell'aggeggio quando...

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LO SCHIANTO - «Sono vivo solo perché ho rallentato in vista dell'autovelox che impone i 70 chilometri all'ora. L'ho odiato tanto quell'aggeggio quando l'hanno installato perché ho preso un paio di multe. Ma mi sono reso conto che se fossi andato più veloce, non sarei qui a raccontare quest'esperienza terribile, dalla quale ne sono uscito sulle mie gambe». A parlare è Alberto Amà, il 41enne polesano che era al volante della Hyundai Tucson coinvolta nel frontale causato da Angelo Gallocchio, il 90enne che il 29 giugno alle 15 aveva imboccato la tangenziale sud contromano e che è morto ieri dopo una decina di giorni di agonia in soepdale a Padova.

Amà è uno sportivo molto noto nella sua Adria, un ironman del gruppo sportivo Rhodigium Triathlon. Lavora in un'azienda in corso Stati Uniti a Padova e ammette di aver pestato spesso sull'acceleratore in passato lungo la tangenziale, che percorre quasi quotidianamente. Mai avrei fatto i 70 chilometri all'ora se non fosse stato per l'autovelox. Con il senno di poi, ora posso dire che grazie a Dio sono stato obbligato a rallentare. Se fossi andato più veloce, probabilmente sarei morto».
 
IL FRONTALE
Il polesano ripercorre quei secondi di terrore: «Sono sempre stato lucido, non sono mai svenuto, quindi mi ricordo tutto perfettamente. Ero ormai arrivati al curvone alla fine del quale c'è l'autovelox, quindi ho messo tutte e due le mani sul volante e ho controllato ancora una volta il contachilometri per vedere se superavo i 70. Questione di un istante. Quando ho sollevato lo sguardo verso la strada, ho visto la Mini Minor nera che mi precedeva che si spostava di colpo. E io mi sono trovato davanti quella Fiesta blu al contrario. Ho inchiodato e ho sterzato, ma non ho potuto evitare lo schianto». 
Il 41enne ha impressa nella mente l'immagine dell'auto che si stava per schiantare contro di lui: «Quell'anziano era rigido, stringeva le mani sul volante e aveva lo sguardo spaventato. Che sapesse di essere contromano? Non saprei dirlo, secondo me no, era convinto di essere nella corsia giusta finché non si è trovato me davanti. Stava attendendo che mi spostassi. Ma non ho potuto farlo».
TENTATIVO ESTREMO
Lo schianto è stato inevitabile. «Ho sterzato a destra, ho colpito l'altra auto con il muso della mia, poi la parte posteriore è finita sul new jersey che mi ha impedito di finire nell'altra carreggiata, ma sono volato sopra l'auto dell'anziano e sono cappottato. Quando ho sentito il rumore del tettuccio che sfregava contro l'asfalto ho pensato: Sono vivo, passato questo non posso più morire. Quindi è scoppiato l'airbag e sono sgusciato fuori dalla macchina come un gatto, temendo che qualcuno dietro di me potesse venirmi addosso ancora».

Alberto a quel punto si è guardato attorno. «Mi sono avvicinato all'auto dell'anziano e di sua moglie. Ho sentito lui che rantolava, un rumore che non scorderò mai più. Ma ero sconvolto, stavo male, ho lasciato che altri automobilisti si occupassero di lui, io non ce la facevo. Ho saputo della sua morte e ne sono molto addolorato». 
Marina Lucchin Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino