Belluno. Meno preti, il vescovo Marangoni: «Abbiamo ereditato strutture che non possiamo più mantenere»

Sono in tutto 125 i sacerdoti della diocesi metà è over 75, ma ci sono 4 seminaristi

BELLUNO - Non solo diocesi. Nella consueta intervista che precede il Natale, il vescovo Renato Marangoni parla anche di scuola, del rapporto con i politici locali, degli effetti...

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BELLUNO - Non solo diocesi. Nella consueta intervista che precede il Natale, il vescovo Renato Marangoni parla anche di scuola, del rapporto con i politici locali, degli effetti della pandemia e della demografia in provincia di Belluno. Ma è anche un bilancio, visto che il prossimo 24 aprile completerà il settimo anno di presenza a Belluno. Un periodo in cui la diocesi ha perso 37 preti e 2 diaconi permanenti. Solo nell'ultimo anno sono morti 6 preti: don Ausilio Da Rif, don Luigi De Rocco, don Lino Del Favero, don Andrea Tison, don Samuel Gallardo, don Mario Carlin; e fra questi don Samuel, parroco di Cesiomaggiore e Soranzen, era ancora giovane.

Cosa è cambiato in questi 7 anni?
«Sì, vado verso il settimo anno di ministero da vescovo qui nella diocesi di Belluno-Feltre, un periodo in cui non si può considerare solo il numero dei preti. C'è tutto un contesto parrocchiale che sta mutando e sta cercando come abitare in un tempo in cui le istituzionalizzazioni del passato sono di molto mutate. Oggi è possibile scorgere una religiosità più personale, più interiore. Quando diventa fede ed esperienza spirituale sembra diversa nella sua espressione pubblica rispetto al passato. Penso che stia succedendo così a chi vive la fede con la Chiesa. Ci sono molti fermenti interessanti anche se non sono rilevanti come numero, ma appaiono più cercati e più autentici. Tante persone vivono così inserite nei loro contesti di vita. Penso che ci sarà molto da scoprire a riguardo nel futuro».

Come va con il Seminario? E il diaconato permanente che fine ha fatto?
«C'è anche la questione - e non è marginale dei preti. Siamo scesi a 125. Sessantadue di questi hanno sopra i 75 anni. Attualmente solo 58 sono parroci e servono le 158 parrocchie della diocesi, con l'aiuto degli altri che possono. Dei seminaristi uno sarà ordinato diacono nella prima domenica di maggio 2023, due stanno frequentando gli anni di teologia, un altro giovane sta frequentando un anno che precede la formazione seminaristica, altri tre giovani sono in altri seminari - precisamente a Trieste e a Colonia - inseriti nel cammino neocatecumenale. Un altro giovane, già con la prima professione religiosa, è a Verona con i Canossiani: non è male. Il nostro Seminario che convive con quello di Trento sta andando bene ma è un percorso formativo di passaggio. Sul diaconato è in atto una seria riflessione, anche per noi. C'è qualcosa che va approfondito meglio e soprattutto c'è un contesto ecclesiale da promuovere affinché possano essere valorizzate tutte le forme di servizio al Vangelo da parte di tutti i battezzati».

Il sempre minor numero di sacerdoti comporta anche difficoltà di gestione delle strutture. È un problema da affrontare dal vescovo o un cambiamento che responsabilizza maggiormente le piccole comunità?
«Sono molti gli aspetti e i nodi. Sì, abbiamo ereditato dal passato troppe strutture che allora si potevano gestire, ma che oggi non riusciamo a mantenere, a meno che non trasformiamo il nostro lavoro pastorale e la nostra finalità missionaria in azienda. Come le comunità ecclesiali potrebbero assumere questo onere? Non è facile immaginarlo, forse richiederà ancora una riflessione e una maturazione sinodale. Resta il fatto che il cambiamento si profila nell'orizzonte ecclesiale, nel mettere insieme le risorse, nel dinamicizzarle, nel rigenerare i motivi di fondo, che si concentrino di più e meglio sul Vangelo e nello stesso tempo di assumere competenze gestionali adeguate».

Visto il suo ruolo di responsabile della Commissione Triveneta nell'ambito dell'educazione e della scuola, qual è la sua visione della scuola futura?
«Penso la scuola come una palestra dove ci si esercita su tutti i fronti e a tutti i livelli. Oggi le conoscenze sono estesissime, ma mancano le relazioni significative tra persone, tra storie diverse, tra passato presente e proiezione futura La scuola è un bene di tutti e una responsabilità di tutti. Dovrebbe essere la ragione per cui tutti stiamo in una sorta di formazione permanente e condivisa».

A che punto è il percorso sinodale? Più in generale quali questioni poste dalle chiese di diversi Paesi del mondo sono più interessanti per il Bellunese?
«C'è un rinnovamento in atto che matura in termini di partecipazione di tutti, di continuo processo per ritrovare le ragioni di fondo del Vangelo da aprire e condividere. C'è soprattutto la consapevolezza, come dice papa Francesco, che dobbiamo apprendere l'arte di stare sulla stessa barca protesi verso un futuro che dipende dai sogni e dai progetti e poi dalle responsabilità di tutti. Quel diventare noi di cui tanto si parla, senza assolutizzare nessuno, restando disponibili a cambiare, cercando di nuovo le ragioni che ci accomunano senza uniformarci».

Dal sinodo in particolare è venuta la richiesta di ascolto da parte dei giovani: come si muove la diocesi?
«Mi sento in divenire. Con i giovani non si può dare per scontato qualcosa. A riguardo sento che la nostra Chiesa di Belluno-Feltre deve ancora mettersi in discussione e in ricerca, sono convinto che i giovani di oggi ci stanno dicendo qualcosa che ancora non siamo disposti a riconoscere. Ci interrogano sulle grandi ragioni per cui vivere e dunque per cui credere, sperare e amare».

È la pandemia che ha causato un calo della partecipazione alla vita della Chiesa o si tratta di un processo autonomo?
«Non credo che sia autonomo. Mi chiedo quando sarà evidente il senso delle cose che abbiamo da poco vissuto e che ancora sono in atto. Preferisco sentire l'appello a cercare e a guardare al bene che non è mai venuto a mancare».

Anche la provincia di Belluno vive una forte crisi della natalità, quali sono le possibili risposte alla crisi demografica?
«Occorre aiutare in tutti i sensi le famiglie e le comunità. Mi sembra che si cerchi innanzitutto di auto-conservarci. Qui tutti siamo in questione: sono convinto che se scegliamo di essere famiglia e comunità questo blocco si scioglierà».

Sono ripresi gli incontri con gli amministratori. Come è andato l'incontro dello scorso 7 novembre? Quali le ricadute sul territorio? Ci sono in progetto altre iniziative?


«Sono contento di poter dialogare anche con gli amministratori locali: tutti siamo chiamati al bene comune; la vita sociale è un grandioso progetto di umanità che si fa, matura e offre nuove opportunità perché a tutti sia riconosciuta la propria dignità di vita, di azione, di parola e perché a tutti sia data la possibilità di dare e condividere ciò che a ciascuno è possibile senza che ciò sia motivo di discriminazione. Il richiamo al diventare fratelli e sorelle è la condizione di una umanità sana, speranzosa, confidente, solidale Buon Natale a tutti». 

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Il Gazzettino