PORDENONE La solitudine è una brutta bestia. Senza l’amore di un nipote, che passa di tanto in tanto a trovare la nonna o il nonno; senza il conforto di un figlio che...
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«Non volevo più vivere - è il suo messaggio toccante - ma ora ho trovato una seconda giovinezza, una vera famiglia». La storia è il particolare, che porta a tratteggiare un fenomeno generale in crescita. E a Pordenone è in corso una vera e propria lezione, che riguarda un nuovo modo di concepire la terza età. Si chiama “social housing”, letteralmente abitare sociale, e consiste nell’esercizio (non di stile, ma reale) di ricreare il mondo di una volta, fatto di comunità e dialogo, all’interno di case comuni per anziani autosufficienti.
LA RICETTA
Primo, l’iniziativa è in mano più che altro ai privati. Singole cooperative o imprenditori individuano edifici semi-abbandonati da ristrutturare, investono del proprio e trasformano il degrado in opportunità. Nascono così abitazioni dedicate alle persone anziane in grado di gestirsi da sole. Il concetto è semplice: ci sono le camere, dove regna la privacy, ma il resto della giornata lo si vive assieme, negli spazi comuni. Si gioca a carte, si “litiga”, si parla come una volta e ci si racconta le esperienze di una vita, c’è chi si diverte con il punto croce. Le cooperative, poi, provvedono a fornire colazione, pranzo e cena, nonché a pulire i locali e a fornire assistenza quotidiana. Nel Pordenonese in questo momento domina la coop Foenis, piccola realtà che ha scelto di aprire due case (Clelia e Lucia) in città e a Roveredo, ma che adesso si è espansa anche a Belluno. «E non ci fermeremo - assicura - Pietro Turchet, il presidente -, perché la richiesta è continua e il modello funzione. È una formula innovativa che ricrea la vita di una volta». Nelle due case pordenonesi gestite dalla coop ci sono in totale venti ospiti: più donne che uomini, tutti anziani che prima vivevano da soli e che sono stati letteralmente salvati dalla morsa della depressione e dell’abbandono. Non c’è solo Foenis. Altre realtà si stanno muovendo per imitarne il modello e far fronte a una domanda crescente che arriva da una delle fasce più deboli (ma più corpose) della popolazione che invecchia sempre di più.
I COMUNI
Come detto, la maggior parte delle abitazioni sociali è figlia di iniziative private. E il pubblico che fa? I Comuni ci stanno provando. Esiste un patrimonio edilizio inutilizzato praticamente sconfinato: vecchie latterie, asili in disuso, case diroccate. Tanti enti vorrebbero trasformare ciò che si trovano annualmente a bilancio come una zavorra in un’opportunità. Ma è in quel momento che il meccanismo si inceppa. Proprio il settore pubblico, che dovrebbe occuparsi in prima persona dell’assistenza agli anziani, non ha i soldi per recuperare i vecchi edifici, e i progetti restano al palo. È così da Pordenone alla cintura, fino alla provincia più sperduta. Ci sarebbero decine e decine di case da poter utilizzare per strappare gli anziani alla solitudine e al male di vivere. Ma per farlo servono investimenti: da più parti è partito un appello comune alla Regione, che di recente ha preso in carico il problema, cercando di trasformarlo in un’occasione. Ma i tempi lunghi, è questa la sensazione, lasceranno ancora tanto spazio ai privati.
Marco Agrusti Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino