Quando scrivevo la presentazione a una sua rigorosa mostra di disegni, allestita nel 1982 nella prestigiosa Biblioteque Internationale de Musique Contemporaine di Parigi, notavo...
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Si trattava invece, a ben vedere, di una precisa scelta estetica e formale che dipendeva naturalmente dallo stesso mondo immaginativo di Varese, affollato di difficili temi figurali, inusuali e spesso perfino inquietanti. Un mondo di cardinali, vescovi e Arlecchini disturbanti, figure di animali fantastici spesso feriti o squartati, e sorprendenti scene trasgressive di ispirazione religiosa. Tutti elementi figurali posti all’interno di un complesso progetto espressivo che lo stesso artista aveva titolato “Ciclo dell’umana condizione”. Anche in una nota così breve appare allora evidente che tutta l’opera pittorica, e la grafica in particolare, di Renato Varese, si è manifestata volutamente in modi “antigraziosi”, spesso con stesure cromatiche aspre e dure, forse perché tesa a pervenire a una verità espressiva più cruda e a una più autentica visione concernente, in definitiva, la tragica avventura esistenziale dell’uomo.
Uno dei primi critici d’arte italiani a capire veramente la forza dell’opera di Renato Varese è stato forse Paolo Rizzi che non a caso ha parlato nei suoi testi di una particolare ansia esistenziale e di una coinvolgente “spettralità visionaria”, citando a questo proposito un pertinente riferimento storico, come quello nordico di Matthias Grünewald.
Adesso che l’artista di Conegliano è pienamente all’interno di quella che un maestro storico chiamava “la grande età”, godendo perciò della possibilità di una ormai riflettuta e consolidata lettura critica, possiamo davvero affermare che l’opera di Renato Varese, e la sua stessa proposizione immaginativa, occupano un posto assolutamente originale e di sicuro rilievo nel panorama dell’arte veneta del XX secolo. Perché forse tra le poche in grado di fronteggiare la disperante visione di un mondo esposto all’azione corrosiva della violenza e del male.
Il Gazzettino